venerdì 26 luglio 2013

Musica e Filosofia (8)

Die Sonne tönt, nach alter Weise,
in Brudersphären Wettgesang...
Il sole suona, all'antica maniera,
nel canto a gara di sfere sorelle...
Johann Wolfgang GOETHE, Faust
BELLEZZA E SPAZIALITA' DELLA MUSICA
Parte ottava
Essenziale alla filosofia non è soltanto la sostanza concettuale delle cose e del loro confluire nel mondo; è anche la cadenza con cui quelle sostanze sono pre-pensate. Abbiamo visto come nel pensiero di Kant ciò che distingue soprattutto la cosmologia di quel filosofo da quella tradizionale sia il concetto spazio-temporale: spazio e tempo come realtà trascendentali e a priori, concepibili persino come vuoti contenitori universali da riempire di cose e di eventi. La più drastica alternativa a tale immagine mentale è la filosofia cristiana del medioevo maturo, a partire dalla fase tarda del rinascimento carolingio. Le tendenze della Scolastica in campo cosmologico hanno in comune, nella loro diversità anche aspra, il presupposto che lo spazio esista soltanto a posteriori, non "dopo" gli enti estesi ma "poiché" tali enti esistono, che il tempo esista solo "poiché" esistono eventi con moti e successioni misurabili.
La teoresi filosofica, i cui enunciati possiedono una possibilità ab aeterno e non dipendono da occasioni storiche, obbliga al rigore della logica e non ammette casualità. Ma le apparizioni de facto di tale teoresi lungo l'orizzonte storico ci abitua (si direbbe, per contrappeso) ai casi e ai paradossi. Non ci si stupisca se le teorie cosmologiche oggi più ardite e innovatrici si adattano piuttosto ai presupposti della Scolastica che non a quelli kantiani. Le ipotesi sulla nascita e sull'espansione dell'universo, nate da premesse einsteiniane, teorizzate ambiziosamente da Ralph Alpher, Hans Albrecht Bethe e George Gamow (la cosiddetta "teoriaalfa-beta-gamma") e oggi criticamente sviluppate da Stephen Hawking, presentano il big bang come una "singolarità" assoluta sull'orizzonte degli eventi: al di fuori di quell'orizzonte non esistono né spazio né tempo, e essi "cominciano ad esistere" (più correttamente, "esistono" tout court) soltanto "entro" quell'orizzonte, ossia in coincidenza con la variazione decisiva da un universo di temperatura e densità infinite e di dimensioni zero (inconcepibile, non visualizzabile, e d'altra parte neppure identificabile con il "nulla", poiché il nulla non ha né densità né temperatura) a un universo in espansione incipiente, di densità e temperatura in progressiva diminuzione (Hawking suppone che un secondo dopo il big bang la temperatura dell'universo sia già scesa a "soli" 10 miliardi di gradi centigradi) e di dimensioni crescenti in proporzione inversa. I black holes (buchi neri) presenterebbero, come mostruose anomalie, le identiche condizioni di ciò che "era" (si può usare davvero il tempo passato nell'uso linguistico) l'universo "prirna" del big bang (ma non si può dire "prima", non esistendo il tempo al di fuori dell'universo dalle dimensioni diverse da zero). Questo urtare disperato della ragione contro i concetti incrociati di spaziotempoessere, e nulla è, nella collocazione del problema, praticamente identico al modo in cui lo stesso problema è posto da Tommaso d'Aquino nella Summa contra gentiles, libro III, capitoli 1-38: il mondo non può essere stato creato "nel" tempo, in un "quando", "prima" di qualcosa, poiché il tempo incomincia ad esistere "con" il mondo, e da quell'esistenza ha avvio il prima e il poi. La creazione (il big bang?), ossia il rapporto ontologico di dipendenza tra Dio e il mondo, va intesa come aggancio metafisico, non come novità cronologicamente individuabile, poiché in Dio non possono esistere novità né variazioni né capricci. La creazione è ab aeterno, in quanto, essendo Dio necessario, anche il suo rapporto con il mondo è necessario. Al di fuori delle cose create, né spazio né tempo sussistono. Nel momento stesso in cui vogliamo salvare la purezza scientifica del problema cosmologico, fondiamo il diritto d'intervento della filosofia. Le conclusioni cui giungono oggi i cosmologi si appellano esclusivamente a ipotesi matematicamente fondate e a osservazioni sperimentali (lo spostamento verso il rosso dello spettro stellare, la velocità di allontanamento reciproco delle galassie, l'esistenza dei buchi neri), e dinanzi alla "singolarità" del big bang o a quella inversa e ipotizzata del futuro big crunch (la grande contrazione che riporterebbe l'universo a dimensioni zero e a densità e temperatura infinite, ossia la fine del tempo e dello spazio) nessuno scienziato degno di questo nome deve domandarsi: "Perché?". La questione diverebbe immediatamente ontologica, e anzi l'ipotesi del big bang e dell'inverso big crunch è l'esatto confine tra l'ordine scientifico e l'ordine ontologico dei problemi. La filosofia ha il diritto di meditare su qualsiasi oggetto, ma ha il dovere di attenersi a un solo metodo, il proprio ed esclusivo. Al di là di questo limite, si dicono colossali sciocchezze. La terrificante parabola che parte da un mistero che è quasi nulla ma non è nulla, ed è comunque al limite del nulla, procede verso l'espansione di uno spazio inconcepibile, si arresta, retrocede verso una non meno inconcepibile contrazione, ritorna al misterioso quasi nulla, ossia, in due parole, dal big bang al big crunch, potrebbe essere vista, senza offendere l'intelligenza di nessuno, come la mano di Dio che, nell'arco di 20 o 30 miliardi di anni, si apre lentamente e lentamente si chiude a pugno. Ma è chiaro che ciò è soltanto una metafora, o un sogno, di cui lo stesso Dio potrebbe sorridere.
Questo è il punto preciso in cui s'innesta il nostro tema specifico. In una concezione secondo cui al di fuori di spazio e tempo non esiste nulla, neppure (per rendere omaggio alla rivoluzione copernicana di Kant) entro le possibilità della nostra ragione, dov'è la musica? Esiste, si pensa, una realtà potenziale della musica indipendente dall'esistenza del genere umano, indipendente dalla storia e della civiltà, poiché i rapporti logici su cui la musica si fonda sarebbero pur sempre in atto, né siamo noi uomini "storici" a determinarli. Ma al di fuori del mondo come realtà ontologica? Al di fuori dell'orizzonte degli eventi? Una risposta audacissima è offerta dalla tradizione ellenica, e precisamene da Platone; ne parleremo ampiamente. Platone ci abbaglia con la realtà di una musica universale ed eterna indipendente dall'esistenza dello spazio-tempo; ciò è possibile esclusivamente perché il filosofo ateniese esclude il problema della creazione, e comunque di un inizio del mondo, di qualcosa che, sia pure in termini molto diversi, potrebbe coincidere con il big bang. Certo, Platone affronta il problema con temerità vittoriosa. La filosofia cristiana medievale, in particolare la Scolastica, elude la questione, ed eludendola dà implicitamente una risposta negativa: no, la musica esiste soltanto se esiste lo spazio, e anch'essa è creata. Questa è la differenza radicale tra la fase precristiana e la fase cristiana più matura di una tradizione sostanzialmente unitaria e ininterrotta, posta in crisi soltanto dal pensiero moderno a partire dall'età rinascimentale. Prima di scendere ad alcuni esempi, diremo che la meditazione sulla natura ontologica della musica sviluppata dalle filosofie della Scolastica si riassume in una formula: nello spazio creato, la musica compendia e rappresenta nella forma più nobile e splendente la bellezza, che di quello spazio è uno dei connotati salienti, insieme con la verità, con la bontà e con l'unità connaturata.
E' stato soprattutto Edouard De Bruyne (Etudès d'esthétique médiévale, De Tempel, Bruges 1946, vol. II, pp. 273 ss.) colui che ha dato un ordine alla selva di tendenze e di enunciati dispersi sull'argomento dai filosofi medievali. Naturalmente, l'ordine sistematico dato da De Bruyne è, proprio in quanto sistematico, soggettivo, e lo dobbiamo verificare richiamandoci alla lettura diretta degli autori in cui egli con immensa dottrina s'immerge. I maestri di Chartres vedono il mondo come kosmos, ossia come ordine e bellezza,ordo exornatus, in contrapposizione a un caos primigenio, quale il mondo sarebbe se si riducesse a pura materia, non avendo la materia "prima", ossia non connotata da qualità alcuna, forma, per cui, a maggior ragione, sarebbe priva di qualsiasi bellezza. La bellezza deriva dal principio ideale, dalla presenza di idee nella materia, e d'altra parte le idee non sarebbero "bellezza" se non s'incarnassero nella materia che cade sotto i nostri sensi. Ciò deriva dal presupposto cristiano secondo cui soltanto il mondo materiale è soggetto a giudizio estetico, oltre che a giudizio etico e logico. Il mondo spirituale tollera soltanto queste ultime due specie di giudizio, come vuole la concezione cristiana della Scolastica. Si giunge così all'inaccettabile ma interessante e persino feconda conseguenza: le arti, compresa la musica, hanno un senso unicamente attraverso la materia, in ossequio alla bella formula di Suger de Saint-Denis: "Mens hebes ad verum per materialia surgit ". Notiamo, per inciso, smentendo parzialmente (ma non sostanzialmente) una nostra precedente osservazione, che su questo punto la concezione cosmologica della Scolastica è opposta a quella dei cosmologi oggi all'avanguardia: per alcuni di essi (Stephen Hawking, i suoi discepoli Julian Luttrel e Jonathan Halliwell), la nascita e l'espansione dell'universo dopo il big bang è il passaggio progressivo dall'ordine al disordine, ossia alla dispersione di energia prima concentrata, per cui, paradossalmente, la stessa musica sarebbe disordine, mentre l'ordine coinciderebbe con il silenzio. Nelle filosofie cristiane medievali, il transito dal nulla all'essere del mondo è, in quanto essere, ordine e quindi bellezza, kosmos.
I maestri di Chartres spiegano la fine dell'exornatio come l'imprimersi di idee divine sulla materia. Questa "impronta divina", tema ricorrente nell'estetica medievale in Occidente, spicca già mille anni prima nell'opera di Filone d'Alessandria. Essa è l'ornamento del mondo, e come tale non rimane un accidens, quell'ornamento che nella concezione artistica di Adolf Loos sarà definito "crimine". E' necessaria. La necessità della bellezza è un punto di forza dell'estetica medievale cristiana, e riscatta molti punti deboli. Uno studioso inglese di semantica, Angus Fletcher, ha sottolineato un altro tema ricorrente nell'estetica medievale. L'indagine è sviluppata nel bellissimo saggio Allegory: The Theory of a Symbolic Mode, Cornell University Press, Ithaca 1964. Del libro esiste una traduzione, oggi quasi introvabile, di Roberta Rambelli (Allegoria; teoria di un modo simbolico, Lerici, Roma 1968; in particolare, le pp. 116-120). Fletcher pone in rilievo il fatto che l'exornatio derivi da un ordine gerarchico, il cui segno più rappresentativo è l'armonia musicale. Un'armonia fondata su precise gerarchie di suoni è, com'è noto, il carattere primario della concezione armonica medievale, destinato a indebolirsi progressivamente e infine radicalmente nelle concezioni moderne del linguaggio musicale, fino alla Wiener Schule. Alla visione gerarchica è legato il sistema dei modi medievali e il concetto di consonanza che gli si affianca.
Su questa base concettuale si delineano due idee importanti, la cui esposizione documentata si trova, ancora una volta, in De Bruyne. La prima idea: l'armonia musicale distingue il caos connesso con la pura materia in forme definite. Ciò è all'origine dell'estetica musicale di Bernardo Silvestre e di Alano di Lilla. Bernard de Tours o Bernardus Sylvestris, vissuto nel secolo XII, era amico di Thierry di Chartres, fratello minore del più celebre Bernardo di Chartres, l'uomo dal luminoso aforisma: "Noi siamo nani sulle spalle di giganti". Proprio a Bernardo di Chartres fu per lungo tempo falsamente attribuito il trattato De mundi universitate, che è invece di Bernardo di Tours o Silvestre. L'opera, in prosa e in versi intercalati, nel I libro presenta la natura che lacrimante si rivolge a Noys (= Nous, l'illustre termine della filosofia presocratica e platonica interpretato cristianamente come "divina provvidenza") lamentandosi del caos confuso e indecifrabile in cui si contorce la materia prima (l'aristotelica prote hyle, ma hyle significa anche sylva, la "selva" dantesca, da cui l'appellativo di "Sylvestris" dato a Bernardo di Tours). La natura supplica Noys di introdurre nel mondo l'ordine, la bellezza e i significati, e le suggerisce, come strumento primario, l'armonia musicale. Dal De mundi universitate deriva quasi certamente l'estetica musicale di Alano di Lilla (Alain de Lille, Alanus ab Insulis), nato a Lille tra il 1114 e il 1128, morto a Citeaux il 12 luglio 1202. Alano, forse allievo di Bernardo di Clairvaux, ultima guida di Dante nel Paradiso, e di Thierry di Chartres, fu magister e infine rettore dell'Università di Parigi, ed espose le proprie idee, quasi esattamente conformi a quelle di Bernardo Silvestre, nell'Anticlaudianus sive de officiis viri in omnibus virtutibus perfecti carmen hexametrum libri IX(Basilea 1536, prima edizione a stampa). La musica è argomento dei libri III, cap. 5, e VII, cap. 2 e 6. La seconda idea fondamentale sottolineata da De Bruyne è formulata, fra gli altri, da Guillaume de Conches: ogni forma impressa da Dio nella materia pone l'essere creato in condizione di essere uguale a se stesso. Questa convinzione esercita una forte influenza sull'idea di un significato assoluto di ciascun suono musicale, irripetibile e non trasponibile, sui significati attribuiti ai suoni entro i diversi modi autentici o plagali e sul sistema modale nel suo insieme. Com'è noto il temperatum aequabile e la nascita del sistema tonale indeboliscono molto questa concezione di assolutezza.
Tuttavia, l'estetica medievale presenta proprio in tema di exornatio una drammatica ambivalenza. Fortissima è dopo il X secolo la polemica della Chiesa contro l'ornamento rappresentato dall'arte, inutile lusso del mondo. "Noi che abbiamo detto addio alle cose mondane", scrive Bernardo di Clairvaux nell'Apologia ad Guillelmum, "guardiamo alle dolcezze della musica come a sterco". Agghiacciante enunciato, che tra l'altro, nel momento stesso in cui lascia indifferente ogni spirito irreligioso e non cristiano, manda in frantumi l'essenza della preghiera e del rito ecclesiastico. Chiunque abbia letto Dante ricorda con simpatia la squisita figura di Bernardo, ma simili dichiarazioni rappresentano, per noi che scriviamo, un sintomo di ciò che più odiamo sulla terra: il rigorismo, lo spirito di rinuncia, il moralismo, il pauperismo dello spirito, il populismo intellettuale, l'integralismo religioso, insomma, il cristianesimo cattivo e odioso, quello di Paolo di Tarso, fustigatore e sessuofobo, in contrapposizione al critianesimo sublime, quello di Francesco d'Assisi, mai sessuofobo, mai censuratore della bellezza, pieno d'appassionato amore per la materia.
A conforto dello studioso, e a nostro sconforto, osserviamo che questo atteggiamento savonaroliano e khomeinista è, nella cultura medioevale, asistematico (allora si diceva: "eretico"). Anzi, nel cristianesimo di quei secoli era tendenziale il valutare come eresia il pauperismo, talora anche a sproposito; affermiamo recisamente che lo spirito francescano non è pauperista, poiché non reca tracce di populismo o di spirito autofustigatorio. Quindi, è un atteggiamento deviante e minoritario. Nel cristianesimo integralista di oggi, esso è maggioritario, per non dire della spaventosa ignoranza vuoi filosofica vuoi artistica vuoi universale che domina la cultura cattolica odierna (in Italia in misura più accentuata), in contrasto con lo splendore culturale del pensiero cristiano e della Chiesa cattolica nel medioevo. Segno tangibile di tale diversità è la musica ripugnante, viscida, da festival di San Remo in versione particolarmente triviale, che si ascolta oggi nelle chiese cattoliche (ne è radice l'odio sfrenato per la bellezza, per la nobiltà e per i pregi intellettuali), raffrontata con l'altissima tradizione musicale di cui, grazie al lascito cristiano medievale, siamo eredi.
Perciò, non è strano che contro il disprezzo per l'exornatio abbia condotto una vittoriosa battaglia il maggiore fra i filosofi del medioevo cristiano, il più sistematico ed enciclopedico: Tommaso d'Aquino. La speculazione tomistica in campo estetico si fonda sull'idea di proportio, legata all'assioma secondo cui il bello è trascendentale: ogni cosa è proporzionata per il fatto che è. La proportio ideale, matematica, s'incarna nella proportio sensibile, che Tommaso modella con decisione sulla sua forma più tipica ed eloquente, la proportio musicale. Una lunga controversia, destinata a rinascere, è intorno al 1270 decisa con provvisorio trionfo dal celebre passo: "Homo delectatur secundum alios sensus... propter convenientiam sensibilium... sicut cul delectatur homo in sono bene harmonizato". (Summa theologica, Secunda secundae, 141, 4 ad 3)
Quirino Principe
(Musica Viva, Anno XIV n.8-9, agosto/settembre 1990)

giovedì 25 luglio 2013

Musica e Filosofia (7)

Perchè tutti godono del ritmo, del canto, e in generale della musica?
Non è forse perchè noi godiamo per natura dei moti conformi a natura?
Lo dimostra il fatto che ne godono i bambini appena nati.
ARISTOTELE, Problemi di musica, 921 a.

MUSICA E SPAZIO
Parte settima
Ci siamo domandati, nella precedente puntata di queste indagine, dove sia la musica. Né puerilità né semplificazione: la domanda va presa alla lettera. Anche i filosofi più radicati in una visione metafisica del reale non possono evitare un dato immediato della coscienza: la musica avrà pure la sua fonte in un sopramondo o in un antimondo, o esisterà magari una musica-archetipo sulla quale la musica sensibile è modellata, ma la musica dell'uomo, fatta dall'uomo e per l'uomo, è hic et nunc, in questo mondo dell'esperienza materiale presente ai sensi che sembra proprio essere l'unico mondo assegnato al pensare e all'operare umano. Esiste uno spazio corporeo, e la musica è in questo spazio.
Ma che cos'è lo spazio? Si potrebbe scrivere una storia della filosofia indagando fra le risposte date a questa domanda. Il passo aristotelico in exergo è la visione di un filosofo "antico", ma formalmente è al centro della filosofia, è il punto d'arrivo di un percorso già lungo secondo le ragioni della logica, non secondo le ragioni del tempo storico e rettilineo, dal momento che due secoli - quanti ne corrono dalle formule orfiche al maggior discepolo di Platone - sono di fronte alla realtà cosmica assolutamente nulla quanto sarebbero nulla diecimila anni. La musica, sottintende Aristotele, è movimento la cui misura è il tempo, e il movimento "conforme a natura" non può attuarsi se non nello spazio fisico. Detto questo, quasi tutte le idee sono state pensate, quasi tutti i giochi sono fatti. Si è detto che gli autentici percorsi del pensiero, circolari e non rettilinei, male si adattano alla rappresentazione storicistica della filosofia secondo il prima e il poi, in cui il post hoc è per diseducativa abitudine scambiato per un propter hoc. La connessione logica tra diverse definizioni dello spazio segue spesso un itinerario rovesciato rispetto a quell'astrazione che è il tempo rettilineo e storico, ed è sorprendente ma indubbio che proprio l'Occidente, intriso di storicità, abbia sviluppato un pensiero in cui molte formule trovano compimento in enunciati più antichi. Fra le visioni che legano lo spazio alla natura della musica, la più complessa e onnicomprensiva è nella filosofia occidentale quella esposta da Platone nel finale della Politeia; le speculazioni medievali, soprattutto quelle di Tommaso d'Aquino o della scuola di Chartres, sono dell'enunciazione platonica più premesse che postille. A sua volta, per quanto sembri irriverente il dirlo, l'analisi critica di Kant sembra preparare il terreno all'estetica dell'aquinate o di Chartres, poiché, malgrado la drastica dissimiglianza di linguaggio e di forma mentis, sgombra il campo da problemi preliminari.
Una celebre antinomia kantiana coinvolge direttamente la concezione della musica. Se lo spazio, pure immenso, è finito, la musica è una realtà d'incalcolabile ampiezza e di inconcepibili possibilità, ma delimitata; una gigantesca architettura di suoni entro confini forse inavvicinabili ma certi. Se lo spazio è infinito, anche la musica è infinita. Com'è noto, gli oppositori di Kant hanno sempre addebitato un errore al filosofo del criticismo: lo spazio kantiano è forma a priori dell'intuizione sensibile, ed è teorizzato come un "prirna" rispetto alle cose intuite dall'esperienza. Il razionalismo contemporaneo alla Kritik der reinen Vernunft, e più tardi, con particolare irritazione polemica, il neotomismo, hanno osservato ripetutamente che non esiste uno spazio vuoto di oggetti, poiché soltanto gli oggetti esistenti generano, con il loro esistere, i rapporti di distanza e di volume, e quindi lo spazio è un "poi", un'astrazione che compendia in un termine le relazioni tra le cose sensibili. Otto anni dopo la prima edizione del grande libro kantiano, Johann Schulz, predicatore alla Corte del re di Prussia e professore ordinario di matematica all'Università di Königsberg, pubblicò la sua Pröfung der kantischen Kritik der reinen Vernunft (Hartung, Königsberg 1789), in cui commentava la definizione di Kant: "Lo spazio è il sentimento esteriore (äußere Empfindung) dell'esser-fuori-l'una-dall'altra (Äußereinanderseyn) delle sostanze". Schulz osservò: "Sarebbe superfluo ricordare per l'ennesima volta che la rappresentazione dell'esser-fuori-l'una-dall'altra presuppone già la rappresentazione dello spazio. Eccoci dinanzi a un circolo vizioso. E aggiungo: quale senso esteriore ci fornisce questo 'sentimento', come lo chiama Kant? Per ogni tipo di sentimenti o sensazioni di ciò che è esterno a noi è chiamato in causa un particolare organo di senso. Ma lo spazio è completamente diverso da tutte le sensazioni che noi riceviamo mediante i nostri cinque sensi. Esso, in quanto puro spazioindipendente dagli oggetti che in esso si collocano, non si può vedere, né udire, né toccare, né assaporare, né odorare" (pp. 153-154).
Quindi, secondo gli orientamenti antikantiani, inclini a una concezione finita della realtà spaziale, lo spazio di per sé non genera suono, né rapporti misurabili tra i suoni. Sono le cose sensibili che, generando lo spazio con il loro proprio ed effettivo esistere, generano anche il suono, le distanze, i rapporti tra grandezze, le misure. Negli enunciati, in verità, Kant non risolve l'antinomia finito-infinito, e lascia problematica la decisione. Ma è indubbio che date le conseguenze culturali tutte indirizzate verso l'infinito, secondo il corso del pensiero romantico, malgrado l'apparente equilibrio antinomico mantenuto da Kant, la tesi di uno spazio infinito è la più destabilizzante e nuova, la più insidiosa per la concezione teologica tradizionale. La visione dell'infinito favorisce la centralità dell'Io-penso kantiano e della Ichheit fichtiana che in gran parte ne deriva; è la strada che conduce all'Idea autocreatrice di Hegel, e ne sono coinvolti il soggettivismo di Jean Paul, l'es muß sein beethoveniano e la coppia schumanniana Eusebius-Florestan.
Nello spazio finito, scelto come tesi di battaglia soprattutto dall'opposizione cattolica a Kant, la musica predilige i contorni formali, la fedeltà alla "forma" e al "genere", la struttura matematica, le leggi "razionali" dell'armonia. Supporre lo spazio infinito significa privilegiare inevitabilmente lo spazio interiore, non misurabile ed estensibile ad libitum, e la musica più espressiva che non formale, in cui ogni composizione tende a farsi forma e genere a sé. La grande controversia che nel secolo XIX anima il fiero dissenso di un Hanslick contro Berlioz, Liszt e Wagner ha le sue radici anche nel mondo con cui storicamente viene frantumata l'antinomia kantiana finito-infinito.
La vivacità della controversia nel campo dell'estetica musicale è parallela all'asprezza della polemica contro l'infinito kantiano, che dagli anni in cui la Kritik der reinen Vernunft sommuove il pensiero occidentale si protende fino al decennio in cui muore Schumann. La durezza degli attacchi è sospinta dalla coscienza, talora inconfessata, che Kant non teorizza ex nihilo, ma rappresenta il punto d'arrivo di una grandiosa offensiva, scandita da potenti scosse: lsaac Newton (1642-1724), Philosophiae naturalis principia mathematica (1687); Leonhard Euler (1707-1783), Mechanica (1736); Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787), Theoria philosophiae naturalis, 1763. E' un'offensiva di radice laica che tende ad escludere il tema di una creazione divina del mondo dal novero dei problemi propriamente filosofici e scientifici (è giusto osservare, tuttavia, che il tema si riaffaccia oggi nei punti cruciali di molte laicissime tesi cosmologiche a proposito del big bang come "evento-singolarità" dell'universo), e di conseguenza mira a dare dello spazio un'interpretazione matematica, indipendente dall'esistenza di oggetti, siano essi creati o non creati. E' inevitabile che l'indole matematica di tale analisi, in Newton come in Euler, favorisca la tesi di uno spazio infinito.
L'atteggiamento filosofico di altri uomini di scienza, implicante una visione teologica e creazionistica, è tanto più intransigente quanto più agguerrita è l'offensiva laica, né si può negare il suo sottile rigore. Nel secolo XIX, il prete cattolico Bernhard Bolzano (Praga, 5 ottobre 1781 - ivi, 18 dicembre 1848), figura di straordinaria altezza intellettuale, sviluppa una critica all'idea kantiana d'infinito nella Wissenschaftslehre(1837) e nei postumi Paradoxen des Unendlichen (1851).
La matematica è per Kant il campo d'esemplificazione privilegiato, in cui si attua più che altrove il punto di forza che egli attribuisce alla ragione, la sintesi a priori, che garantisce, in quanto a priori, trascendentalità rispetto all'esperienza e quindi verità, e aggiunge, in quanto sintesi, nuove conoscenze. Kant definisce 5 + 7 = 12 un giudizio cui alla nozione del soggetto, 5 + 7, si aggiunge una nozione tutta nuova, 12, non pensata prima. Bolzano obietta che per ottenere dalla somma di due numeri un terzo numero è sufficiente un'aggiunzione progressiva del tipo 7 + 1, 8 + 1, 9 + 1, ecc.: un'operazione "pre-pensata", analitica, implicita come procedimento a priori nel formarsi della serie dei numeri naturali. Ma la critica di Bolzano è fondata su un fraintendimento: Kant vuole evidenziare non il rapporto interno tra gli elementi dell'operazione, bensì il processo mentale compiuto nell'operazione.
Così Kant compie un tormentoso sforzo di assegnare alla ragione, malgrado i suoi ferrei limiti di azione in un mondo fenomenico e non noumenico della percezione sensibile e la sua impossibilità di cogliere in quanto ragion pura la cosa in sé e di assumere come oggetto di scienza le idee della metafisica tradizionale, un ruolo che le consenta di creare nuove conoscenze e nuovi oggetti del pensiero; la "tragedia della ragione", ossia l'inattingibilità della cosa in sé o noumeno, non impedisce a questo strumento dell'Io penso di utilizzare le infinite possibilita presenti nello spazio infinito e nel tempo infinito. Bolzano, nella cui concezione cattolica spazio e tempo sono finiti (soltanto Dio è infinito, né gli oggetti creati possono avere i caratteri d'infinità e di eternità propri del creatore), esclude che la ragione possa creare: può trovare il già esistente, e illuminarlo soltanto rivelandone la forma.
La conseguente concezione della musica trova il suo alveo nella cornice culturale disegnata dalla forte opposizione tra le tesi di fondo. Kant, che non esita a darci un'interpretazione tutta interiorizzata della musica, insiste nel legare il gusto musicale all'Empfindung. La vita emotiva e sentimentale allarga nello spazio interiore inesauribili possibilità alla musica, ma sempre in quella dimensione. Questa collocazione della musica è riduttiva, eppure coltiva, rendendolo fertile, il terreno da cui nascono, tra l'altro, quegli esempi di musica mozartiana in cui la libertà formale fa leva sull'intensità dell'Empfindung: momenti supremi, le misure introduttive del Dissonanzenquartett in do maggiore KV 465 (1785), o il Rondò in la minore KV 511 (1787). A Kant, assai più che non a Hegel, fa riferimento il linguaggio musicale romantico, e alla concezione kantiana dello spazio interiore sono consanguinei gli indirizzi di ricerca verso zone "intermedie" dell'armonia: la scomposizione cromatica degli intervalli, l'evento repentino di accordi alterati, l'improvvisa espansione o contrazione del discorso musicale.
Paradossalmente, il filosofo moderno il cui pensiero ha avuto gli esiti più critici nei confronti della tradizione rende finalmente chiara l'estetica musicale prevalente nel medioevo cristiano. La rende chiara nelle sue motivazioni più profonde rivelando i suoi argumenta ex silentio. Il collocare la musica esclusivamente nell'interiorità dell'Empfindung, errore riduttivo, isola il problema che i maggiori filosofi della Scolastica non affrontano, o affrontano con reticenza, eppure presuppongono secondo le loro intuibili inclinazioni culturali: la necessità di negare l'interiorità della musica, assegnando al canto e al suono degli strumenti unicamente lo spazio esterno e nella compagine della natura mondana, entro la cui cornice essi devono essere giudicati. Ma poiché quello spazio, secondo gli Scolastici, è l'unico che possa controllare i pericolosi turbamenti prodotti nell'animo della musica, e poiché è un'allegoria del creatore in quanto sua creatura, è inevitabile, nel discorso degli Scolastici, un'intenzionalità metafisica. E' ciò che esamineremo nella prossima riflessione.
Quirino Principe
(Musica Viva, Anno XIV n.7, luglio 1990)

mercoledì 24 luglio 2013

Beethoven, Hoffmann e la musica assoluta

Beethoven, Hoffmann e la musica assoluta

—Marco Segala,
Il suo orecchio ode l'armonia della natura;
ciò che la storia porge, che la vita dona,
il suo petto accoglie subito e volentieri:
ciò che è disperso lontano, raduna il suo animo,
e il suo sentimento anima l'inanimato.
Sovente egli nobilita ciò che a noi apparve volgare
e ciò che è stimato diviene nulla innanzi a lui.
In questo suo circolo magico, cammina
quell'uomo mirabile, e ci attira
a camminare con lui, a partecipare con lui:
sembra avvicinarsi a noi, e da noi rimane lontano.
(Goethe, Torquato Tasso, Atto primo)
Dorothea Graumann, Baronessa von Ertmann, è da annoverarsi tra i migliori talenti pianistici del primo Ottocento. Conobbe Beethoven all'inizio della sua carriera, si appassionò alla sua musica e, secondo le parole del compositore, fu capace di interpretarla come «la vera tutrice delle creature del mio spirito». Quando nel 1831 Felix Mendelssohn le fece visita a Milano, insieme passarono lunghe ore tra il ricordo e la musica di Beethoven. Mendelssohn fu molto colpito dal racconto di un episodio accaduto vent'anni prima. In seguito al lutto per la perdita del figlio minore, la Baronessa aveva rinunciato alla vità di società, e lo stesso Beethoven, per timore di disturbarla, si era astenuto dal farle visita. Attese il ritorno alla vita e alla musica della sua amica, e quando ella finalmente si recò da lui, egli sedette al piano e pronunciò una sola frase: «ora parleremo con la musica». Suonò per più di un'ora, senza arrestarsi, lasciando un'impressione indimenticabile nell'ascoltatrice: «mi disse ogni cosa, e infine mi diede conforto»1.
E' difficile stabilire se il racconto della Baronessa abbia rispecchiato l'accaduto e non, piuttosto, la concezione mendelssohniana della musica. Fu Mendelssohn, infatti, a sostenere esplicitamente la superiorità della musica sulla parola in merito alla precisione della comunicazione2. Tuttavia è vero che Beethoven, seguendo la via di Haydn e Mozart, donò alla musica quella grandezza che ne fece un linguaggio autonomo rispetto all'espressione verbale. Forse non disse «ora parleremo con la musica», ma certamente con la sua musica manifestò «ogni cosa» e «diede conforto» all'amica in lutto.
Il tema dell'indipendenza della musica dalla parola, felicemente sintetizzato da Carl Dahlhaus nella locuzione «musica assoluta»3, segnala con chiarezza il distacco della concezione musicale ottocentesca rispetto alle precedenti. Tale concezione è diventata parte della nostra cultura con il nome di estetica musicale romantica, poiché fu portata in auge da alcuni esponenti del primo romanticismo tedesco - E.T.A. Hoffmann in particolare. Ma proprio l'aggettivo «romantico» pone una serie di questioni tutt'altro che secondarie.
In primo luogo va ricordato che Hoffmann celebrò come «romantica» la musica dei tre grandi maestri classici Haydn, Mozart e Beethoven. A rigore, inoltre, l'idea di musica romantica, sintetizzata da Hoffmann nella famosa recensione (1810) della Quinta sinfonia beethoveniana, non può essere estesa ai compositori romantici. Costoro infatti scrissero musica a programma, mentre per sua natura la musica assoluta è aprogrammatica. Ma le complicazioni non finiscono qui. Almeno tre altri argomenti possono essere richiamati. 1) «Intorno al 1800 alla musica classica non corrispose un'estetica musicale classica, e viceversa all'estetica musicale romantica non corrispose una musica romantica». 2) L'estetica musicale romantica nacque nella Germania settentrionale protestante, mentre nella cattolica Vienna originò la musica da essa esaltata. 3) I due filosofi che rielaborarono la concezione musicale romantica in una metafisica della musica assoluta all'interno dei loro sistemi teoretici - Hegel e Schopenhauer - vollero innalzare agli altari del pensiero non gli ideali estetici romantici bensì classici4.
Il modo più convenzionale per tentare di sciogliere i nodi concettuali e terminologici coperti dall'espressione «estetica musicale romantica» è quello di interrogare la copiosa letteratura che, dalla fine del Settecento, dedicò la sua attenzione al fenomeno musicale e contribuì a stabilire il primato della musica strumentale come musica assoluta. Non è un lavoro nuovo, come testimonia la mole di testi che negli ultimi anni sono stati dedicati al tema in oggetto, ma credo potrebbe offrire nuovi illuminanti spunti. C'è tuttavia un'altra possibilità, meno esplorata e altrettanto interessante: cercare di capire perché l'estetica musicale romantica trovò la realizzazione dei suoi ideali nella musica classica viennese. La risposta è nell'attenzione che musica e filosofia della musica si rivolsero reciprocamente negli anni attorno al 1800.

1. La musica romantica: genio e razionalità

La recensione, con la quale Hoffmann celebrò la Quinta sinfonia (op. 67, 1808) di Beethoven, apparve nel luglio 1810 nell'Allgemeine musikalische Zeitung, la più importante rivista di musica dell'epoca nel mondo di lingua tedesca5. Fondata nell'ottobre 1798 e diretta da Johann Friedrich Rochlitz, la rivista aveva periodicità settimanale e si presentava sia come luogo di riflessione sulla musica sia come fonte di informazioni sulle nuove composizioni, i nuovi strumenti, i concerti, l'opera e tutti gli avvenimenti musicali. Le recensioni costituivano una parte importante: principalmente erano espositive e informative, ma non era inusuale che offrissero contributi di tipo saggistico. Tuttavia quella di Hoffmann fu a suo modo straordinaria: diede vita alla critica musicale come oggi la conosciamo ed espose la concezione della musica assoluta. L'autore medesimo riconobbe di avere ecceduto i limiti del modo consueto di recensire, allo scopo di «mettere in parole le profonde sensazioni» risvegliate dalla composizione6. Il lettore riconosce che riuscì perfettamente nell'intento: seppe raccontare la musica con un'efficacia forse unica, coniugando profondità e parsimonia verbale. E la sua esposizione del primo movimento, che contiene uno dei brani più famosi della produzione beethoveniana, segue la musica con precisione, trasferisce nel linguaggio verbale i temi, il ritmo, il colore. La lettura durante l'ascolto regala un'esperienza fuori del comune: la certezza di cogliere il significato - musicale - autentico del brano.
Accanto al talento critico, Hoffmann dispiegò profondità teoretica e brillante sintesi concettuale. Già nell'esordio, appare con forza l'intento teoretico: poiché la musica strumentale è l'unica forma musicale indipendente da ogni altra arte, essa è definibile come «la più romantica di tutte le arti - si potrebbe dire che è l'unica puramente romantica». La scelta dei vocaboli, nella prima pagina della recensione, è potente e immaginifica: «il potere magico della musica» trae l'ascoltatore «fuori dal quotidiano nel regno dell'infinito»; «la musica rivela all'uomo una realtà sconosciuta, ... un mondo nel quale egli lascia dietro di sé tutto ciò che è circoscritto dall'intelletto per abbracciare l'inesprimibile»; «ogni passione - amore, odio, rabbia, disperazione - è rivestita dalla musica nel brillìo purpureo del romanticismo» Donde viene la magia della musica? Il recensore non ha dubbi: strumenti e concertisti migliori hanno la loro importanza, ma «è una più profonda consapevolezza della natura particolare della musica che ha consentito ai grandi compositori di innalzare la musica strumentale al suo livello presente». Sono i compositori geniali che ne hanno svelato la gloria e la potenza: Haydn e Mozart - «i creatori della musica strumentale moderna», Beethoven - «colui che le diede totale devozione e penetrò la sua natura più profonda». La loro musica «è permeata dal medesimo spirito romantico, per la semplice ragione che essi colgono intimamente la natura essenziale dell'arte»7.
In queste osservazioni Hoffmann rivela l'istinto del filosofo, capace di cogliere l'essenza dell'arte, ciò che accomuna gli artisti e la natura straordinaria del genio:
la sensibilità romantica è rara, il talento romantico è anche più raro, probabilmente perché pochi sono capaci di toccare la lira che dischiude il mondo meraviglioso dell'infinito. Haydn coglie romanticamente l'umanità nella vita umana... Mozart domina la qualità magica e sovrumana che risiede nell'intimo. La musica di Beethoven mette in moto il meccanismo dell'orrore, della paura, del terrore, del dolore e risveglia quella nostalgia infinita che è l'essenza del romanticismo. Beethoven è un compositore puramente romantico e quindi veramente musicale. ... Si è soliti considerare le sue opere come mere produzioni del genio, che ignora forma e discernimento di pensiero e che si arrende al suo fervore creativo e ai dettati passeggeri della sua immaginazione. Invece è pari a Haydn e Mozart nella consapevolezza razionale, nel controllare il suo sé distaccandolo dal dominio interiore dei suoni e regolandolo con autorità assoluta...
Solo lo studio più approfondito della struttura intima della musica di Beethoven rivela il suo alto livello di consapevolezza razionale, che è inseparabile dal vero genio nutrito dal continuo studio dell'arte. Beethoven porta il romanticismo della musica, che esprime con suprema originalità e autorità nelle sue opere, nel profondo del suo spirito. Il recensore non ha mai sentito ciò così acutamente come in questa sinfonia. Essa dispiega il romanticismo di Beethoven ... e trasporta irresistibilmente l'ascoltatore nel meraviglioso regno spirituale dell'infinito8.
L'osservazione sulla compenetrazione di genio e consapevolezza razionale9 è di grande importanza per Hoffmann. La ripropone in altri due luoghi: al termine dell'analisi del primo movimento, accentuando il carattere razionale della creazione musicale beethoveniana, e in conclusione10:
a parte il fatto che il trattamento contrappuntistico testimonia una profonda conoscenza dell'arte, gli episodi e i costanti richiami al tema principale mostrano come l'intero movimento con tutte le sue caratteristiche distintive non sia stato concepito meramente nell'immaginazione ma completamente nel pensiero. ...
Il recensore crede di poter riassumere il suo giudizio sulla splendida opera di questo compositore in poche parole, dicendo che essa è concepita dal genio e elaborata con profonda consapevolezza, e che esprime il romanticismo della musica al massimo grado.
Queste ultime parole chiariscono senza equivoci perché Hoffmann definì romantica la musica classica viennese. Per Hoffmann, la potenza evocativa della musica trova la sua ragion d'essere in un procedimento creativo che, pur possibile solo per il genio, è guidato dalla ragione e dalla determinazione razionale a esprimere contenuti (musicali e non). In altre parole: il genio musicale è necessario per creare un'opera d'arte autentica, ma non è sufficiente; servono anche la maestria tecnica, il dominio del mezzo (il linguaggio musicale) e del fine (il contenuto da esprimere), la consapevolezza dello stesso atto creativo. Se tutto ciò viene definito con l'aggettivo «romantico», si capisce perché Haydn, Mozart e Beethoven sono chiamati romantici. Il carattere principale della musica dei tre compositori fu la conciliazione dell'esigenza drammatica (la resa di un sentimento) con la perfezione formale, realizzata nella struttura espositiva per eccellenza della musica classica viennese: la forma sonata.
Con la forma sonata, i tre maestri crearono un linguaggio dagli effetti drammatici, sorprendenti, espressivi e, insieme, formalmente definiti. Il nuovo linguaggio mostrò un potere di penetrazione e di integrazione altissimo, tanto da essere applicabile a qualunque genere musicale. Giunse a superare sia la tradizionale distinzione tra musica religiosa e secolare sia la più recente distinzione tra musica orchestrale (per le rappresentazioni pubbliche) e musica da camera (per l'esecuzione in privato). La forma sonata si estese alla musica orchestrale, solistica, da camera e religiosa, come mostrano le messe e gli oratori dei tre compositori. Secondo il principio inderogabile della stabilità tonale, la forma sonata permise di costruire strutture simmetriche - nel complesso della composizione e all'interno di ciascuna frase - nelle quali la transizione ritmica crea e scioglie la tensione, con gli effetti di coinvolgimento che ogni ascoltatore può provare11.
Quando Hoffmann afferma che la musica beethoveniana è capace di cogliere l'infinito non «meramente nell'immaginazione ma completamente nel pensiero», mostra di avere compreso che la forza emotiva dello stile classico scaturisce dalla simmetria e dal bilanciamento. Quando esalta la capacità di mettere «in moto il meccanismo» delle passioni, parla delle infinite possibilità espressive della forma sonata, che sa dare vita a un nuovo linguaggio delle emozioni, anche delle più complesse, fino all'ironia e al divertimento. Quando, a proposito dell'orchestrazione della Quinta, scrive:
in particolare, è la stretta relazione dei temi individuali l'uno con l'altro che fonda l'unità capace di suscitare e mantenere un sentimento nel cuore dell'ascoltatore. Nella musica di Haydn e Mozart questa unità domina ovunque12,
spiega che il dettaglio è relato alla forma nella sua interezza. Per questo, nella musica classica viennese l'organizzazione è completamente udibile. La forma non è mai imposta dall'esterno, ogni effetto - emotivo, intellettuale, sensuale - viene dalla musica. E' questa una differenza fondamentale rispetto alla musica barocca, nella quale l'organizzazione può dipendere da elementi extramusicali e quindi non è udibile. LeVariazioni Goldberg esemplificano magnificamente il ruolo di un ordine non musicale bensì matematico, una caratteristica illuminata dalla celebre definizione leibniziana «musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi».
Hoffmann sottolineò la capacità della musica classica a esprimersi autonomamente: «quando si parla di musica come arte indipendente, il termine può essere applicato in modo appropriato solo alla musica strumentale». E Schopenhauer diede la sua interpretazione filosofica della musica assoluta proprio correggendo la definizione di Leibniz: «musica est exercitium metaphysices occultum nescientis se philosophari animi». Con espressioni e intenti diversi, i due autori riconobbero nella musica un linguaggio autonomo, che aveva trovato in sé le risorse espressive per parlare della realtà e dell'esistenza umana13.

2. La forma sonata e i sistemi filosofici

Con la forma sonata, i compositori classici conciliarono la libertà espressiva con l'organizzazione, la creatività con l'equilibrio, il rapimento estetico con l'ordine. Hoffmann diede voce a questa prerogativa della musica classica viennese, quando la definì «romantica». L'aggettivo risulta disturbante o inappropriato soltanto se lo si intende nella forma volgarizzata, come sinonimo di sentimentale o, peggio, irrazionale. Nel senso esplicitato dalla recensione alla Quinta - sintesi di genialità e consapevolezza razionale -, esso illustra anche le ragioni dell'attrazione che la musica classica esercitò sui filosofi del primo Ottocento, tanto da stimolare quelle intense riflessioni sulla musica che diedero vita alla metafisca della musica assoluta.
La conciliazione tra genio e ragione, visione dell'infinito e controllo formale, libertà e sistema fu, infatti, l'aspirazione dei pensatori del periodo. Pur in modi diversi, Schelling, Hegel e Schopenhauer eressero sistemi filosofici con l'ambizione di esprimere il mondo nella sua totalità e complessità. La rivolta contro il razionalismo illuministico e la scienza newtoniana non significò la rinuncia alla razionalità e alla ricerca scientifica. Essi cercarono di ricondurre alla ragione quegli aspetti della spiritualità umana che, tradizionalmente, erano stati giudicati non razionali o non degni di considerazione razionale. Il loro scopo era estendere la sfera della razionalità anche laddove la ragione sembrava negata. Le considerazioni e i libri sul cosiddetto lato oscuro della realtà, tanto diffusi nei primi anni del secolo, rappresentarono un altro aspetto di questa esigenza, la quale può essere definita irrrazionalistica soltanto se giudicata superficialmente e senza distinzioni.
In questa prospettiva il caso di Schopenhauer è emblematico. La sua concezione teoretica asserì il primato del non razionale - la volontà - sulla ragione, eppure egli non rinunciò a costruire un sistema filosofico e razionale. Professò l'esigenza di una filosofia libera dal dominio dell'astrazione concettuale e stigmatizzò gli errori kantiani, che, a suo parere, derivavano dall'eccessiva importanza attribuita alla costruzione architettonica del sistema. In polemica con Kant e la sua architettonica, che accusò di barocchismo, presentò il Mondo come volontà e rappresentazione alla stregua di un sistema organico, costruito per dare voce alla vitalità del pensiero stesso. Nonostante le differenze, condivideva le aspirazioni dei filosofi suoi contemporanei in merito alla costruzione filosofica: rendere visibili la totalità e l'unità in ogni singola parte del discorso; elaborare la complessità e la totalità della realtà all'interno di una struttura ordinata; godere della libertà all'interno della sistematicità, ovvero non soccombere alle esigenze del sistema. Achim von Arnim, scienziato e poeta, reclamò come «necessario» «il bisogno della libertà di muoversi senza catene e in modo asistematico in tutti i sistemi»14.
Tutte queste erano anche le caratteristiche della musica all'interno della forma sonata. Appare così un plausibile motivo della forte attrazione che la musica strumentale classica ebbe sui pensatori dell'epoca. E' comprensibile, ancora in Schopenhauer, l'uso perentorio di espressioni quali: «ogni musica perfettamente intonata è un analogo del mondo». Fu lo stile classico a fare della tonalità il fondamento sul quale poggiano l'ordine e la libertà. E proprio il convergere nella forma sonata di esigenze metafisiche ed estetiche spiega perché, negli anni successivi, il filosofo non degnò di considerazione i compositori romantici e continuò a parlare della musica strumentale classica. Furono i romantici che per primi misero in questione la tonalità, che introdussero la musica a programma, e che cercarono di sostituire nuove strutture compositive (esemplare è il ciclo) alla forma sonata.
Secondo questa linea interpretativa, è anche possibile cercare la ragione che indusse Hegel a ignorare Beethoven nelle sue discussioni sulla musica e Schopenhauer a escluderlo dalla prima edizione del Mondo come volontà e rappresentazione (1819). Vista nella sua interezza, la produzione beethoveniana manifesta una continua istanza di ricerca verso e oltre confini mai varcati. Beethoven dichiarò spesso insoddisfazione per le sue opere e teorizzò la necessità di trovare nuove vie e nuove sonorità. Era convinto che nell'arte non si può restare immobili, e questo argomento potrebbe essere letto come espressione di idiosincrasia romantica per l'originalità. Al contrario, per lui la scoperta di nuovi mondi musicali era funzionale ad ampliare il linguaggio musicale, allo scopo di comprendere sempre più intimamente la realtà e l'uomo, la ragione e il sentimento, la natura e lo spirito15.
Nel secondo decennio dell'Ottocento questa visione complessiva della produzione beethoveniana non era ancora disponibile. Era soltanto possibile vedervi un percorso - un percorso che, per motivi diversi, appariva divergere sempre più da quello di Haydn e Mozart. Innanzitutto bisogna ricordare che negli anni 1812-15 Beethoven toccò il vertice della sua popolarità, fu omaggiato dai potenti e guadagnò molto denaro scrivendo brani celebrativi di scarso valore musicale (relativamente all'autore, naturalmente). Nel medesimo periodo convisse con un drammatico blocco creativo, dal quale riuscì a sfuggire grazie a nuove esperienze che sembrarono infrangere la Forma classica e inclinare verso la musica romantica. Già qualche anno prima, Beethoven aveva esplorato i territori della musica a programma: la Sesta sinfonia (op. 68, 1808), intitolata dallo stesso autore Pastorale16, è uno splendido esempio, così come la sonata per pianoforte Les adieux (op. 81a, 1810). La sonata Appassionata (op. 57, 1805), il primo movimento della Quinta e il finale della Settima (op. 92, 1812) - a dispetto del giudizio di Hoffmann sul controllo razionale della creatività geniale - possono apparire come concessioni all'istanza romantica di arte che vive di emozioni. Il ciclo di canzoni An die ferne Geliebte (op. 98, 1816) ha indubbiamente struttura e sonorità romantiche, e non a caso Schumann la citò nellaFantasia in do maggiore op. 17. Walter Riezler distingue con chiarezza cosa furono queste composizioni e cosa poterono sembrare ai contemporanei: «brani che, considerati come pura espressione, contengono ancor oggi qualcosa di inquietante e che nessuna musica successiva, per quanto smisurate siano le dimensioni raggiunte, poté più superarare, e neppure eguagliare. Questa potenza dell'espressione fu ed è talvolta ancor oggi fraintesa come una forza distruttrice della Forma, mentre in realtà è sempre sottomessa a una disciplina veramente sovrumana e a un controllo che non abbandonano Beethoven neppure dove, nel Finale della Settima Sinfonia, sembra in preda al delirio. Anche in questo delirio egli è in ogni istante signore di sé»17.
Il fatto che Hoffmann abbia insistito sulla Besonnenheit di Beethoven rende chiaro che, nonostante l'apprezzamento del pubblico, molti erano ancora i dubbi dei critici sul senso complessivo dell'opera del compositore. Quegli stessi dubbi toccarono i filosofi, quando vollero inserire la musica nei loro sistemi. Schopenhauer scelse di non menzionare Beethoven proprio perché insicuro a proposito della sua collocazione nel tempio della musica assoluta. Beethoven fu un autore difficile e innovativo. Poteva non essere facile ascoltarlo, ed era certamente arduo valutarlo senza una buona conoscenza delle tecniche di composizione. Credo che il caso di Schopenhauer dimostri quanto fosse difficile, all'epoca, esprimere giudizi su Beethoven. Il filosofo lo menzionò nei manoscritti redatti attorno al 1822, con osservazioni che parafrasarono quelle di Hoffmann e che furono poi trasferite nell'edizione del secondo volume del Mondo come volontà e rappresentazione, i Supplementi del 1844. Il riferimento a Beethoven attraverso Hoffmann dimostra che il filosofo non fu in grado di comprendere autonomamente la grandezza del compositore. Una sola frase - a proposito di «noi» ascoltatori, che abbiamo la tendenza a vedere nella musica beethoveniana «scene della vita e della natura», e che invece dovremmo «comprenderla puramente e nella sua immediatezza» - lascia intravedere l'originale opinione schopenhaueriana. Sembra che le composizioni di Beethoven gli fossero comprensibili solo se concettualizzate o rivestite di immagini: proprio il contrario di ciò che, per definizione, è offerto dalla musica assoluta. Soltanto quando si lasciò convincere dall'analisi di Hoffmann, riconobbe Beethoven come uno dei maestri della musica assoluta. Prima gli era apparso come un autore di musica a programma, concettuale, imitativa. L'idea poté forse essere avallata dalle composizioni beethoveniane, che circolavano con titoli ad effetto, ideati dagli editori e tollerati, senza essere condivisi, dall'autore: PrimaveraChiaro di lunaLa tempesta. Di questa opinione resta una testimonianza nel secondo volume dei Parerga (1851), dove Beethoven e Haydn sono rimproverati di essersi «lasciati fuorviare» verso la musica «descrittiva»18.

3. Hoffmann senza il mito «Hoffmann»

Schopenahuer non fu il solo ad avere difficoltà nella comprensione della musica beethoveniana. Come lui, una nutrita schiera di critici e saggisti ebbe bisogno di tempo per riconoscere il primato della forma e il controllo razionale nella geniale produzione del compositore. Questo dato di fatto esplicita la straordinarietà della recensione di Hoffmann e giustifica il primato che le è stato tradizionalmente attribuito nella definizione dell'idea di musica assoluta. Tuttavia, c'è chi ha contestato sia la straordinarietà sia il primato dell'esercizio interpretativo dello scrittore tedesco. Hoffmann - è stato osservato correttamente - non fu l'unico a dare voce alla concezione del primato della musica strumentale. Nella storiografia si sarebbe imposta la mitizzazione dello scrittore, con il conseguente disinteresse per i numerosi saggisti e teorici musicali che, a partire dagli ultimi anni del Settecento, discussero l'emancipazione della musica come linguaggio artistico autonomo.
Questo è sicuramente vero. La maggior parte dei saggi dedicati all'estetica musicale romantica menziona sempre tre nomi (Wackenroder, Tieck e Hoffmann) e pochi altri a scelta tra i grandi della letteratura e saggistica tedesca (gli Schlegel, Novalis, Moritz) e, naturalmente della, filosofia (da Herder a Hegel, da Schelling a Schopenhauer). A voler ben guardare, il tema della musica e del primato della musica pura fu trattato da un numero molto più ampio di scrittori, critici, pensatori e saggisti. Soltanto per ricordare qualche nome, possono essere citati: Johann Georg Hamann, Johann Wilhelm Ritter, Johann Jakob Engel, Wilhelm Heinse, Samuel Taylor Coleridge. A questi vanno aggiunti nomi poco conosciuti e gli innominati estensori di articoli e recensioni musicali su riviste specializzate, quali l'Allgemeine musikalische Zeitung. Se questa via fosse battuta, il racconto della nascita dell'estetica musicale romantica sarebbe meno consueto, e forse anche più interessante di quanto già non sia, ma dubito che sarebbe molto diverso nelle conclusioni. Sarebbe difficile sostenere che Hoffmann non diede un contributo determinante alla nuova concezione musicale, e che si limitò a redarre una sintesi di idee, da altri diffuse nel mondo culturale tedesco. Sarebbe ancora meno giustificabile ritenere superflua la figura di Hoffmann, liquidando la sua recensione come quella che ebbe maggior fortuna, tra le molte pubblicazioni dedicate al tema della superiorità della musica strumentale.
Naturalmente c'è chi ha proposto questa rilettura della storia: invece di Hoffmann, ha puntato l'attenzione su Georg Ludwig Peter Sievers e su altri collaboratori dell'Allgemeine musikalische Zeitung. Ha presentato costoro come gli «Hoffmanns» meno fortunati, dimenticati dalla storiografia, ma forse più di Hoffmann meritevoli di citazioni. A loro merito sarebbe da ascrivere la teoria romantica del genio e la concezione della musica assoluta: la sola differenza rispetto a Hoffmann consiste nel fatto che questi celebrò la musica di Haydn, Mozart e Beethoven, quelli le composizioni di Bach (non solo Johann Sebastian, anche Carl Philip Emanuel), Cherubini, Cimarosa e, naturalmente, Haydn e Mozart19.
L'idea di guardare oltre i soliti nomi e di scandagliare la monumentale rivista di Rochlitz è certamente da apprezzare. Mostrare l'esistenza di una pluralità di voci sul tema della musica e smitizzare la figura di Hoffmann è un indubbio contributo alla storia dell'estetica musicale romantica. Tuttavia è altrettanto criticabile l'estremo opposto: asserire la ridondanza della concezione di Hoffmann. E' interessante mostrare che alcune tesi dello scrittore circolarono prima del 1810 nella rivista alla quale collaborava. Ma questo non giustifica la sua sostituzione con alcuni meno famosi «Hoffmanns», quali originali e autentici estensori dell'estetica musicale romantica. A loro mancò un elemento fondamentale: il riferimento a Beethoven, creatore geniale e controllato, quale unico autentico erede di Haydn e Mozart. Ancora alla fine del 1805 - dopo la terza sinfonia e dopo che il primato di Beethoven tra i compositori era stato riconosciuto -, un saggio dell'Allgemeine musikalische Zeitung accostò Beethoven e Cherubini quali successori di Mozart, precisando, però, che «entrambi non sono stati finora capaci, come lui, di dominare la sua natura [della musica] e di trattenersi dagli eccessi»20.
Proprio attraverso Beethoven, Hoffmann - e lui soltanto - individuò una qualità fondamentale alla concezione della musica assoluta: la capacità di controllare razionalmente la creatività geniale. E' pur vero che anche gli «Hoffmanns» formularono l'idea del primato della musica strumentale e teorizzarono la genialità. Tuttavia, poiché non seppero collocare la musica beethoveniana, essi svilupparono il discorso sul carattere del genio non oltre il consueto gergo filosofico tardosettecentesco. Il genio era imparentato con il talento, e grazie a questo poteva essere definito. Sievers proclamò la genialità di Haydn e Mozart, ma ancora nel 1807 la catalogò, dicendo che i due compositori rivelano nel mondo della musica l'antitesi di intelletto e fantasia che domina nelle arti21. Ben diversamente, Hoffmann introduce una genialità che nulla ha in comune con le consuete categorie spirituali, e che sfida ogni definizione. E' una forza originaria, che può creare o distruggere: perché produca opere immortali deve essere guidata dalla signoria rigorosa della ragione. Secondo Hoffmann, è il diverso approccio razionale, che determina il diverso carattere della musica in Haydn, Mozart e Beethoven.
Queste considerazioni non sono una nuova forma di mitizzazione della recensione di Hoffmann. Certo, in essa comparvero idee e analisi che erano diffuse in altri scritti dell'epoca. Ma in essa soltanto raggiunsero il grado di consapevolezza teorica che riconosciamo loro. Per ottenere un riscontro di questa tesi, basta guardare all'Allgemeine musikalische Zeitung.
La rivista di Rochlitz non fu un fiorire di «Hoffmanns». L'esigenza di sostenere la diffusione delle arti musicali sconsigliò una linea editoriale ristretta dal punto di vista teorico - forse anche perché nessuno, tra i collaboratori della rivista in quei primissimi anni dell'Ottocento, era portatore di idee precisamente definite sulla musica. In un articolo, la melodia della musica strumentale è dichiarata «canto, linguaggio degli affetti e carico di significato»; «deve parlare come la musica vocale, altrimenti, se non ci dice nulla, non lascia sentire nulla, è solo per l'orecchio (e spesso nemmeno per questo) e non per il cuore». Ma poco più avanti, l'autore afferma che per rappresentare la natura e l'anima, la musica non può rinunciare al canto e che per quelle sensazioni che non sono cantabili l'arte musicale possiede un altro linguaggio: «il recitativo, una via di mezzo tra canto e parola». Seguono poi le regole da adottare per decidere quali musiche, ritmo e armonia impiegare a seconda del contenuto non musicale da esprimere22. Partito da una concezione che potremmo essere tentati di leggere romantica, il testo chiude con una tradizionale elencazione di prescrizioni che riporta alla teoria degli affetti. Anche Rochlitz, annoverato tra gli «Hoffmanns», prospettò concezioni che non sembrano aver molto a che fare con l'idea di musica assoluta. A proposito del rapporto tra musica e poesia, sostenne che la seconda può soccorrere la prima per renderla più perspicua. Allo scopo di svelare la natura delle cose, la musica deve essere al servizio della poesia, in quanto questa soltanto comunica senza incertezze23.
Rispetto alla chiarezza d'intenti esibita dalla recensione di Hoffmann, gli scritti risalenti al primo periodo dell'Allgemeine musikalische Zeitung non brillano. Nel primo decennio del secolo, le idee sulla musica erano fluide: il riconoscimento dell'autonomia della musica strumentale come arte non era stato ancora elaborato nella concezione della superiorità della musica rispetto al linguaggio24. Per realizzare questo passaggio non fu sufficiente l'elaborazione teorica, bensì fu necessario lo stimolo a comprendere un nuovo autore e a riflettere su di lui: Beethoven.

4. La musica di Beethoven

Per comprendere quanto vaghi furono i criteri estetici che attorno al 1800 dominarono l'esercizio della critica sulla musica strumentale, va osservato il trattamento - freddo, quando non ostile - riservato al compositore dal periodico di Rochlitz nei suoi primi anni. Il responso del pubblico e l'idea di svago come scopo principale del concerto avevano evidentemente un peso rilevante, poiché il rimprovero ricorrente mosso a Beethoven era di offrire suoni inusuali e irti di difficoltà. Rispetto alle variazioni di Schuppanzigh (per violino), di Philip Freund (piano), e di Heinrich Eppinger (violino-violoncello), quelle per pianoforte di Beethoven (La stessa, la stessissima, dal Falstaff di Salieri, 1799, WoO 73) sono giudicate insoddisfacenti, «rigide e ricercate, piene di passi spiacevoli, dove faticose tirate di inarrestabili semitoni sul basso producono una relazione orribile. Niente da fare, è vero: Herr van Beethoven è abile con le fantasie, ma non è affatto in grado di elaborare variazioni»25.
Il nome di Beethoven apparve per la prima volta nella quindicesima uscita della rivista (19 gennaio 1799), ma soltanto nel titolo di tre sonate a lui dedicate dal virtuoso pianista Joseph Wölffl. La prima recensione comparve nel numero del 6 marzo 1799, con la presentazione delle dodici variazioni su Ein Mädchen oder Weibchen (1798, più tardi accolte nell'opus con il numero 66) dal Flauto magico, e delle otto su Une fièvre brulant (1796, WoO 72), da Richard Coeur-de-Lion di André Grétry. La critica, sbrigativa e dozzinale nel suo giudizio negativo del compositore ed elogiativo dell'esecutore, mostra un sostanziale disinteresse per Beethoven: è l'occasione per parlare d'altro e per invitare i moderni compositori a studiare le opere di Haydn26. Ma al di là del contenuto, ciò che sconcerta è la scelta operata dal recensore: composizioni che Beethoven nemmeno considerò degne di essere numerate nell'opus, invece delle opere (1-11) fino ad allora pubblicate (sette sonate per pianoforte, una sonata per pianoforte a quattro mani, una sonata per pianoforte e violoncello, otto trii, una serenata per tre archi, un quintetto).
A metà maggio, Beethoven venne esaminato come pianista in un articolo dedicato ai grandi virtuosi di Vienna. Il confronto è con Wölffl: questi è più preciso e delicato, Beethoven è più brillante, nelle fantasie è «davvero straordinario», sa padroneggiare il materiale tematico meglio di qualunque altro musicista vivente, è secondo solo a Mozart, che in quest'arte fu il «non plus ultra»27. Una settimana più tardi, viene finalmente recensito un lavoro dell'opus (Trio op. 11), ma le righe dedicategli sono poche (undici!) e negative. Viene riconosciuta l'inusuale conoscenza armonica del compositore, ma questa dote - che potrebbe portarlo a primeggiare tra i musicisti - dovrebbe essere impiegata in una scrittura «più naturale»28. Analogo disincanto verso le difficoltà della partitura beethoveniana viene denunciato dal recensore delle Sonate per piano op. 12, dedicate a Salieri: le «strane difficoltà di cui i brani sono carichi» non lasciano piacere nell'ascoltatore. Il compositore è sì geniale, ma lo è in forma bizzarra e innaturale, si affida a strane e inusuali modulazioni. Si sente che tutto è calcolato da un'alta conoscenza della tecnica compositiva, ma non c'è spazio per la natura e per il lirismo: «soltanto una massa dotta senza un buon metodo, un polverone». Solo un eccellente pianista che ami le difficoltà - «che potremmo chiamare perversità» - e che suoni con precisione potrebbe offrire piacere al pubblico29.
Beethoven trovò frustrante e irritante essere maltrattato con disinvoltura da individui che, dopo avere candidamente ammesso di non avere mai sentito null'altro dell'autore, si fregiavano della loro ammirazione per Haydn e Mozart per dispensare consigli idioti («il compositore dovrebbe trattenere il suo estro e seguire la natura»). In modo decisamente poco elegante, ma certo efficace, Beethoven scrisse non a Rochlitz bensì agli editori della rivista - che erano anche gli editori di alcune sue composizioni -, per lamentarsi di questo stillicidio di stroncature e dei silenzi che ne seguirono30. Ma non fu la lettera a cambiare le cose. A poco a poco la sua musica iniziò a imporsi, forgiò il gusto dei critici e del pubblico, e diede vita a un modo nuovo di considerare la musica strumentale. Non fu solo enfasi, quella che indusse il recensore del concerto del 5 aprile 1803 a sostenere che «esso conferma il mio giudizio, già da tempo elaborato, che Beethoven può portare la rivoluzione nella musica, come Mozart»31.
L'attenzione positiva per Beethoven iniziò dalle sue composizioni per pianoforte. La sua maestria nel controllo dello strumento, evidente persino durante le esibizioni che prevedevano l'improvvisazione, non venne più considerata un eccesso di pedanteria, ma un criterio in base al quale valutare le partiture. Le sonate dell'op. 10 gli fruttarono un giudizio che anticipa di un decennio quello di Hoffmann: un genio pieno di idee, capace di controllo supremo sulla musica per pianoforte. La somiglianza con Hoffmann, però, finisce qui. Dopo avere ammesso di avere cambiato parere sul compositore - di avere imparato ad apprezzarlo poiché ne aveva frequentato a lungo le opere -, il critico dichiara di essere ancora convinto che Beethoven debba limitare le «difficoltà» e risparmiare i «tesori» della sua inventiva tematica. Infine sostiene che «ha qualcosa di simile al carattere di Philip Emanuel Bach»: un paragone che oggi non sorgerebbe spontaneo e che illustra quanto fu complesso, all'epoca, definire il posto di Beethoven nella storia della musica32.
Il processo che portò Beethoven accanto a Haydn e Mozart, e non a Carl Philip Emanuel Bach, fu conseguenza della forza della sua musica. Nel maggio 1802, Beethoven viene elogiato perché ha lasciato cadere gli eccessi, le stranezze, le oscurità senza perdere il suo carattere, nel quale c'è la vera arte. Al vaglio della critica sono le sonate per violino n. 4 op. 23 e n. 5 op. 24 (Primavera), definite «tra le migliori che Beethoven abbia scritto, il che veramente significa tra le migliori che siano state scritte di questi tempi». Si potrebbe pensare che finalmente, dopo avere seguito i consigli tanto spesso elargitigli, Beethoven abbia finalmente meritato il plauso incondizionato. Tuttavia è forte il dubbio che, ancora una volta, non Beethoven bensì il recensore abbia modificato il suo modo di vedere: questi, infatti, consiglia al pubblico, che desideri godere del nuovo genio musicale attivo a Vienna, di ascoltare anche alcuni suoi «lavori precedenti»33. Ma non erano forse quelli dominati da eccessi, stranezze e oscurità?
Ogni nuovo approdo del navigare beethoveniano oltre le colonne d'Ercole della musica udita, nell'oceano dell'inaudito, mise a dura prova i suoi contemporanei. Da parte sua, egli non si fece condizionare o piegare: seguì sempre la sua strada, guidato dallo stimolo della ricerca. Innanzi alla Terza sinfonia (Eroica, op. 55), il recensore è attonito dalla lunghezza, dall'espansione impensabile, quasi un'«osante e selvaggia fantasia». Ancora una volta il giudizio non è completamente positivo: la struttura non sembra reggere le dimensioni, pare ci sia una carenza di ordine, riappare la bizzarria che impedisce di apprezzare l'intero. L'autore della recensione dichiara di essere un ammiratore di Beethoven, ma denuncia il proprio smarrimento: non riesce a trovare il senso dell'unità dell'opera34. Sono lontani i tempi delle stroncature in undici righe: a metà del primo decennio del secolo, Beethoven è già il più celebrato compositore di Vienna, e chi ha dubbi sulla grandezza delle sue composizioni, deve chiedersi se non sia lui stesso incapace di comprenderle35. Nel marzo 1807, il recensore è lapidario: i tre quartetti op. 59 (Razumovsky), difficili e originali, sono frutto di profonda concezione, capaci di fondere le melodie popolari russe nella costruzione formale più pura, e possono essere apprezzati solo da chi ami e conosca non superficialmente la musica36.

5. Dalla musica alla filosofia della musica

Alla fine del 1792, Beethoven aveva lasciato Bonn, sua città natale, per recarsi a Vienna, dove avrebbe preso lezioni da Haydn. In occasione del commiato, il conte Ferdinand Waldstein gli consegnò un saluto che è diventato leggendario:
Caro Beethoven, Lei parte per Vienna realizzando un desiderio lungamente accarezzato. Il Genio di Mozart è ancora in lutto e piange la morte del suo allievo. Presso il fecondissimo Haydn ha trovato asilo, ma non occupazione; anela ancora a qualcuno a cui riunirsi. Possa Ella, per mezzo d'inarrestabile zelo, ricevere lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn37.
L'auspicio del conte ha un meritato posto nella storia della musica: per primo riconobbe la triade dei compositori classici, cogliendo ciò che li accomuna - e che ha preso il nome di musica assoluta. La differenza fondamentale tra i due amici e il loro discepolo sta nella loro coscienza d'artisti, di creatori geniali di musica assoluta: inesistente nei primi, importante e determinante nel terzo. Fu proprio la coscienza d'artista, tanto evidente anche ai contemporanei di Beethoven, che alimentò la creazione di musica inaudita e inusuale, da ascoltare più di una volta per essere compresa38, capace di plasmare l'intelligenza degli ascoltatori e di stimolare riflessioni teoreticamente rilevanti sulla musica strumentale.
Haydn e Mozart vissero in un'epoca che ancora non aveva riconosciuto la figura dell'artista. La vita di stenti del secondo corrispose alla placida stabilità del primo quale stipendiato degli Esterházy. Fu soltanto la mancanza di un padrone ragionevole che negò a Mozart le discrete condizioni materiali godute da Haydn. Per quanto riguarda il successo e il plauso universale al genio, Haydn dovette attendere i sessant'anni e i viaggi a Londra (1791 e 1794). Fino ad allora, egli ebbe la stima dei suoi signori, e poco più. Forse anche per Mozart lavorare a Londra avrebbe significato migliori condizioni di vita, ma soltanto una vita più lunga gli avrebbe portato gli onori che meritava. La potenza creativa della musica strumentale di Haydn e Mozart trovò pieno riconoscimento non prima dell'ultimo decennio del Settecento, e Beethoven ebbe l'opportunità di trarre vantaggio dal mutamento che stava rivoluzionando il rapporto tra artista e società.
Nei primi anni del soggiorno viennese, Beethoven visse come erano sempre vissuti i musicisti: grazie alla protezione di alcuni nobili. Tenne pochi concerti pubblici, si esibì principalmente nei salotti e la sua attività di compositore non interessò tanto quanto le sue virtù di pianista. I primi articoli sull'Allgemeine musikalische Zeitung rispecchiano questo stato di cose: la valutazione del concertista tra i virtuosi del pianoforte, la recensione delle sole variazioni, nessuna menzione per le composizioni pubblicate. Al volgere del nuovo secolo, Beethoven cominciò a manifestare insofferenza. E al 1801 risalgono le testimonianze dell'ormai acquisita coscienza d'artista: la lettera agli editori dell'Allgemeine musikalische Zeitung per un adeguato riconoscimento della sua opera oltre i luoghi comuni del gusto; la causa contro l'editore Artaria, che secondo il compositore aveva pubblicato senza autorizzazione e - ancor peggio - con errori il quintetto per archi op. 29; la lettera all'amico Franz Wegeler, che dichiara esplicitamente l'indipendenza dell'artista dal gusto del pubblico e, finalmente, dalla protezione dei potenti:
le mie commissioni mi fruttano molto e posso dire di avere più commissioni di quanto sia possibile soddisfare. Per ogni pezzo ho sei, sette editori e più ancora, se me ne volessei curare; con me non ci si accorda più, io chiedo e mi si paga. Vedi bene che bella situazione è la mia39.
Mentre Haydn e Mozart divennero l'incarnazione della genialità musicale e Beethoven iniziò a imporsi come libero artista, la musica divenne oggetto di riflessione estetica e si impose come arte autonoma, svincolata dalla poesia. Il romanzo Hildegard von Hohental (1795) di Wilhelm Heinse, i saggi di Tieck e Wackenroder, le discussioni di Friedrich Schlegel in Athenäum e gli articoli dell'Allgemeine musikalische Zeitungcontribuirono a diffondere la concezione del primato della musica strumentale. Un passaggio fondamentale è da individuare in Schelling, che nel suo sistema attribuì primaria importanza alla filosofia dell'arte, e che nella filosofia dell'arte menzionò la musica come la più universale delle arti. Schelling discusse del genio artistico e dell'arte senza nulla concedere al romanticismo come esaltazione del sentimento. Nel Sistema dell'idealismo trascendentale (1800) spiegò che l'arte è «l'unico vero ed eterno organo e documento della filosofia» e proprio grazie all'arte «il sistema è compiuto»40. Nelle Lezioni sul metodo dello studio accademico (1802) contestò quel «certo entusiasmo» che proclama l'impenetrabile mistero dell'arte e del genio: tale entusiasmo, che definisce il «genio libero da regole, nasce solo con la riflessione, la quale del genio conosce solo il lato negativo; è un entusiasmo di seconda mano, non quello che anima l'artista e che, con una libertà simile a quella divina, è in pari tempo la più pura e suprema necessità». Qui appare, pur in forma diversa, il tema hoffmanniano del convergere di creatività e controllo nella produzione artistica: il «genio è autonomo, esso si sottrae ad una legislazione estranea, ma non alla sua propria, poiché è genio solo in quanto è la suprema conformità alla legge»41.
Merito di Schelling fu di estendere alla musica quanto riconobbe all'arte: il potere di riunirsi alla metafisica e di essere ontologia. Il discorso schellinghiano sulla struttura essenziale della musica, così come è svolto nelle lezioni sulla Filosofia dell'arte (1802-1803), nacque dalla forma sistematica della sua filosofia, e questo rappresentò una novità assoluta nelle discussioni dell'epoca. Come Wackenroder, Schelling parlò della musica quale modello cosmico - forma che sa rappresentare nelle sue strutture e proporzioni la sublime unità dell'universo. Ma quando specificò che la musica è forma organica e che l'essere forma costituisce il suo elemento fondamentale, rielaborò le tesi di Wackenroder in una struttura sistematica e razionale, che eliminava quel «certo entusiasmo» frutto di mera «riflessione». Schelling mise in luce il nesso essenziale tra arte e verità, e mostrò la possibilità di realizzare l'analisi musicale per mezzo dell'elaborazione metafisica. La comprensione della musica mediante la forma e la definizione dell'unità formale della musica attraverso ritmo, modulazione, melodia e armonia innalzarono al rango della metafisica i caratteri fondamentali della musica dei tre compositori viennesi42.
La trattazione schellinghiana della musica fu fondamentale sia per le successive filosofie della musica sia per la definizione della musica assoluta, così come Hoffmann l'ha delineata. Tuttavia non sempre questo è riconosciuto: la mancanza di riferimenti a musicisti rende astratte alcune considerazioni musicali del testo schellinghiano. Sembra corretto collegarle alla musica strumentale di Haydn e Mozart, meno a quella di Beethoven43. Per essere certi, bisognerebbe sapere quali furono le esperienze musicali di Schelling, ma è dubbio che a Jena negli anni fino al 1802 si potesse ascoltare Beethoven. Ciò che è rilevante, allora, è riconoscere che Schelling discusse le caratteristiche della forma sonata e dello stile classico all'interno del suo sistema, e così facendo offrì alla musica strumentale non solo lo statuto di arte indipendente, ma anche quel valore metafisico che fu essenziale allo sviluppo della concezione della musica assoluta.

6. Beethoven, la musica, la filosofia

La successione degli eventi, dall'ultimo decennio del Settecento al primo dell'Ottocent,o mostra una sorta di circolo tra la musica, le riflessioni sulla musica e la valutazione in sede critica delle nuove composizioni. Il riconoscimento della grandezza di Haydn e Mozart - creatori di un nuovo linguaggio artistico strutturato nella forma sonata - stimolò riflessioni che ampliarono gli orizzonti dell'estetica fino a includervi la musica e che orientarono l'esercizio dell'attività critica in una rivista importante come l'Allgemeine musikalische Zeitung.
Beethoven comprese meglio di chiunque altro la grandezza del nuovo stile e ne divenne l'erede più autorevole e creativo. Il conte Waldstein non scrisse una profezia, anche se è affascinante considerarla tale. Semplicemente esibì una profonda comprensione della Forma classica e vide nella prima produzione beethoveniana una non comune capacità di padroneggiarla e perfezionarla. A Vienna, Beethoven dimostrò quanto il Conte avesse avuto ragione. Ben prima che nella produzione orchestrale, nella composizione pianistica egli combinò la sua straordinaria abilità nell'improvvisare con il controllo dell'espressività. Già nelle prime sonate per pianoforte è possibile riconoscere ciò che Hoffmann, quindici anni più tardi, avrebbe celebrato: il geniale potere di invenzione risolto in coerenza formale44.
Con Beethoven, il movimento da musica a filosofia e critica della musica appare nuovamente. La sua musica diventò misura per nuovi discorsi sulla musica. Beethoven obbligò critica e pubblico a rivedere i giudizi sulle difficoltà e l'innaturalità delle sue composizioni, indusse i recensori a ritrattare i loro giudizi sulla genialità incontrollata. Dapprima accusate di pervertire l'eredità di Haydn e Mozart, nel volgere di pochi anni le sue partiture insegnarono a riconoscere in tre compositori, non in due soltanto, le vette del nuovo linguaggio strumentale. Sul versante filosofico, la potenza formale beethoveniana offrì il concetto definitorio della musica assoluta così come appare nella recensione di Hoffmann. E questi a sua volta suggerì le espressioni linguistiche con le quali Schopenhauer sviluppò la concezione schellinghiana del convergere di estetica e ontologia nella metafisica della musica.
Definire Beethoven un attore nel processo che portò alla definizione della musica assoluta induce anche a porre un altro interrogativo. E' possibile che il compositore abbia contribuito alla nuova filosofia della musica poiché accolse le istanze filosofiche stimolate dall'opera di Haydn e Mozart? Oltre che discepolo dei due maestri della musica strumentale classica, fu anche erede e interprete della nascente nuova concezione della musica? Possiamo leggere un percorso circolare, che in Beethoven si chiude e si rimette in movimento: dalla musica (di Haydn e Mozart) alla filosofia della musica (di Wackenroder e Schelling), da questa alla musica (di Beethoven) e di nuovo alla filosofia della musica (di Hoffmann, Schopenhauer, Hegel)?
L'intreccio di musica e filosofia nell'opera di Beethoven è talvolta diventato un luogo comune negli studi biografici. La presenza, nei quaderni di conversazione del 1820, dell'esclamazione: «"la legge morale in noi e il cielo stellato sopra di noi" Kant!»45 ha alimentato il mito - al quale Beethoven stesso contribuì - di una musica dedita a fondare e veicolare l'etica universale. Questo mito fa di Beethoven un pessimo filosofo e impoverisce la sua musica: le domande sulla consapevolezza filosofica di Beethoven non intendono certo avallarlo.
Il modo con il quale è formulato il riferimento alla celebre espressione kantiana mostra il genuino entusiasmo che animò l'interesse beethoveniano per la filosofia. Ma è scorretto usare quella frase per definire Beethoven un kantiano. Egli stesso dichiara di averla tratta non dal testo di Kant, bensì dalla lettura, nella Wiener Zeitschrift del 29 gennaio e del primo febbraio 1820, delle "Kosmologische Betrachtungen" di Joseph Johann Littrow, direttore dell'osservatorio astronomico di Vienna e professore di astronomia. Per quanto si può ricavare dalle fonti, Beethoven ebbe solo una conoscenza mediata degli scritti filosofici di Kant e non frequentò le lezioni su Kant di Johann Neeb a Bonn, dopo che nel 1785 l'Accademia della città fu elevata al rango di università. L'interesse per il filosofo non fu mai significativo, anche perché Kant, da parte sua, non offrì un'estetica della musica che potesse interessare il compositore.
Un testo kantiano che Beethoven accostò direttamente, e che possedette, è l'Allgemeine Naturgeschichte, nell'edizione del 1798. Nel diario degli anni 1812-18, il compositore trascrisse alcuni passi, di cui due con modifiche di carattere estetico e musicale:
non la consonanza casuale degli atomi dell'accordo ha formato il mondo; ma forze ben definite e leggi, la cui fonte è nell'Intelletto più sapiente, sono state origine immutabile di quell'ordine che da esse emana non casualmente bensì necessariamente.
[Una conclusione è assolutamente corretta]: se nella costituzione del mondo l'ordine balena nella bellezza, allora esiste un Dio. Ma non meno fondato è quest'altro: se quest'ordine è potuto scaturire dalle leggi generali della natura, allora la natura nella sua totalità è necessariamente una produzione della somma Saggezza46.
I brani kantiani citati da Beethoven mostrano che mai l'interesse fu rivolto a ciò che per noi più è significativo di Kant, ovvero la filosofia trascendentale. In generale, Beethoven non fu attratto dalla filosofia teoretica. I quaderni di conversazione, risalenti agli anni 1818-24, mostrano una notevole cultura filosofica da parte del compositore, ma nessuna propensione a entrare nel merito delle argomentazioni filosofiche. Menzionò e valutò con sicurezza gli autori e le condizioni dell'insegnamento della filosofia: la pedissequa ripetizione della dottrina di Kant da parte del docente berlinese Johann Gottfried Karl Kiesewetter; l'eccessiva longevità della dottrina wolffiana nelle università; l'ancor meno giustificata longevità della filosofia di Johann Georg Feder a Gottinga; l'ottima traduzione di Schleiermacher per accostarsi al grande Platone; la «buona testa» di Fries, professore a Jena47. Nel 1824 elencò i testi da lui più reputati per una buona educazione nei diversi settori della filosofia e della letteratura: la Storia della filosofia di Tennemann, la Storia della poesia di Bouterwek e le lezioni viennesi sull'arte drammatica di August Wilhelm Schlegel. L'alta qualità dell'elenco dimostra che Beethoven, se interessato, sapeva scegliere. Il libro che stona, nell'elenco, è il trattato di logica e metafisica di Jakob, non tanto per il valore intrinseco quanto perché risalente a quasi quarant'anni prima48.
Più che alla metafisica, il compositore indirizzò la sua attenzione ad argomenti naturalistici e scientifici che potevano essere impiegati in considerazioni riguardanti Dio, la perfezione della creazione, il ruolo morale dell'uomo. La forte religiosità, l'istanza etica e, naturalmente, l'estetica guidarono le sue scelte di studio e di lettura. E' il caso delle Considerazioni sulle opere di Dio nel regno della natura di Christoph Christian Sturm, uno dei libri che più apprezzò e che gli offrì l'opportunità di pregare, svolgere esercizio di pietà e devozione, e apprendere innumerevoli nozioni di carattere scientifico. Sostenuto da una buona fortuna editoriale nella seconda metà del Settecento, il testo di Sturm è parte della tradizione fisicoteologica, anche se non è organizzato come un trattato. E' un libro dei giorni dell'anno: per ciascuna data del calendario (compreso il 29 febbraio), Sturm presenta un argomento di carattere scientifico, morale o estetico e conclude con un invito a ringraziare Dio, che ha provveduto a donare tanta perfezione al mondo. Il 4 gennaio discute i «molteplici impieghi del fuoco», il 9 il «meraviglioso stato del sonno nell'uomo», il 13 le «scoperte con il microscopio»; il 24 febbraio è la volta dell'«utilità delle montagne», il 23 aprile della «riproduzione dei vegetali», il 16 dicembre dei «quattro elementi» e il 19 del «fantasticato influsso dei pianeti e delle stelle», con il rifiuto dell'astrologia argomentato scientificamente (niente arriva da quei corpi se non una debole luce) e religiosamente (soltanto Dio regge e regola l'universo e le nostre vite). La «considerazione sul cielo stellato» del 12 gennaio è un piccolo trattato di astronomia in cinque pagine, con la consueta appendice religiosa e morale, che avrebbe ben potuto ispirare a Beethoven un devoto pensiero per «il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». E anche la concisa trattazione della musica, il 22 dicembre, dovette risuonare alla sua coscienza d'artista devoto: «quante volte dobbiamo ringraziare» la musica per il bene che arreca. E' «uno dei più puri e innocenti piaceri», un'arte che dobbiamo impiegare con attenzione, specialmente per la «glorificazione del nostro benigno creatore»49.
Il fatto che il libro di Sturm fosse tra i più cari del compositore mostra che la fisicoteologia, con la sua sintesi di fede, ragione, spirito scientifico, estetica e morale, soddisfaceva lo spirito religioso e filosofico di Beethoven. Questo chiarisce perché, innanzi a un'analoga sintesi di questi elementi nel rigore sistematico della filosofia dell'identità, egli ritenne di avere trovato in Schelling il «più grande» filosofo della storia, insieme a Platone50. La considerazione filosofica della natura e dell'arte nell'imponente struttura metafisica schellinghiana diventò un punto di riferimento per la sua stessa esperienza artistica. La natura, con le sue forme, i suoi segreti, i suoi meccanismi svelati dalla scienza, attrasse per tutta la vita Beethoven. La capacità con cui la sua musica suscita emozioni non è frutto di imitazione o di contemplazione romanticamente sentimentale di fenomeni naturali (la tempesta, la primavera, il chiar di luna), ma della vitalità e della verità che il compositore trae dallo sguardo filosoficamente avvertito della natura. Una lezione che gli venne da Schelling.
Nei quaderni di conversazione, Beethoven menzionò con ammirazione la filosofia dell'arte e le Lezioni sul metodo dello studio accademico («i fondamenti restano, solo le conoscenze di fatto sono state approfondite»)51. Grazie a quei testi, egli poté comprendere il valore della sistematizzazione filosofica, l'armonizzarsi di arte e scienza nella sintesi metafisica di estetica e filosofia della natura. Approfondì i temi concernenti la filosofia della natura, tanto da riuscire a seguire le vicissitudini di alcuni importanti seguaci della Naturphilosophie schellinghiana. Nel 1819, definì uno dei libri del medico e Naturphilosoph Ignaz Troxler come impressionante e rivoluzionario rispetto all'impostazione schellinghiana, e menzionò la «volgare» disputa che oppose lo stesso Troxler a un altro celebrato schellinghiano, Lorenz Oken52.
Questi pochi documenti sono sufficientemente eloquenti nel mostrare una conoscenza attenta e interessata della speculazione schellinghiana. La lettura beethoveniana della filosofia dell'arte fu approfondita e proficua. L'idea schellinghiana di arte che ripropone l'originale armonia di natura e libertà, che invera la verità filosofica, che nella musica realizza l'unità reale del tutto, toccò profondamente il compositore, diede parole e concetti alla sua già formata coscienza d'artista. Definire Beethoven uno schellinghiano sarebbe fuorviante, come spesso le troppo semplificanti aggettivazioni. La potenza artistica, l'insoddisfazione, e la continua ricerca di nuove vie e della perfezione diedero vita alla sua grande musica. Tuttavia, non va sottovalutata l'attenzione che egli dedicò alla più importante sintesi teoretica che nei primissimi anni dell'Ottocento esaltò il primato della musica nella Forma classica. Erede di Haydn e Mozart, poté anche fare tesoro di quella filosofia della musica che elevò a verità metafisica la Forma, alla quale le composizioni di Haydn e Mozart diedero vita. Così, il suo percorso musicale, già animato da profonda consapevolezza, poté diventare anche un percorso filosofico: orientato verso novità musicali che, con la Quinta sinfonia, avrebbero ispirato a Hoffmann parole tanto potenti da consegnare alla modernità la concezione della musica assoluta.

Notes

1 L'episodio è narrato da Alexander Thayer: cfr. A. W. Thayer, Life of Beethoven, ed. by Elliot Forbes, Princeton, Princeton U. P., III ed., 1973, p. 413. Il giudizio beethoveniano sulla pianista è citato da un altro grande biografo beethoveniano, Walter Riezler: cfr. W. Riezler, Beethoven, ed. it. a cura di P. Buscaroli, Milano, Rusconi, V ed., 1991, p. 81.
2 Felix Mendelssohn im Spiegel eigener Aussagen und zeitgenössischer Dokumente, hrsg. von Willi Reich, Zürich, Manesse Verlag, 1970, p. 358. Il compositore sostenne che il linguaggo verbale, non quello musicale, è semanticamente indeterminato: «un brano musicale che io amo esprime pensieri che per me non sono troppoimprecisi da essere racchiusi in parole, bensì troppo precisi. Quindi trovo che i tentativi di esprimere tali pensieri in parole possono avere qualche successo, ma sono comunque insoddisfacenti».
3 Cfr. C. Dahlhaus, L'idea di musica assoluta, Firenze, La Nuova Italia, 1988. Tra le numerose pubblicazioni dello studioso tedesco sull'argomento, sono anche da ricordare: Klassische und romantische Musikaesthetik, Laaber, Laaber-Verlag, 1988; Ludwig van Beethoven und seine Zeit, Laaber, Laaber-Verlag, 1987; e il capitolo (scritto in collaborazione con Norbert Miller) Die Klassik als Präromantik. Aspekte eines musikästhetischen Paradigmenwechsel, in Carl Dahlhaus - Norbert Miller, Europäische Romantik in der Musik, Bd. 1: Oper und symphonischer Stil 1770-1820, Stuttgart - Weimar, Metzler, 1999, pp. 33-56.
4 La citazione e la tesi della dualità geografica sono tratte da Dahlhaus, "Storia europea della musica nell'età del classicismo viennese", Nuova rivista musicale italiana, XXI, 4, 1978, pp. 506-507. Sulle metafisiche non romantiche della musica in Hegel e Schopenhauer, cfr. G. Guanti, Introduzione, in Romanticismo e musica. L'estetica musicale da Kant a Nietzsche, Torino, E.D.T., 1981, pp. 19-27; M. Segala, «L'altro polo del mondo»: musica e metafisica della musica in Schopenhauer, in Filosofia e musica nell'età contemporanea. Studi e ricerche, a cura di Ferdinando Abbri, Arezzo, Dipartimento di Studi Storico-Sociali e Filosofici, Università degli Studi di Siena, 1995, pp. 21-37.
5 La recensione apparve non firmata, come spesso accadeva: Allgemeine musikalische Zeitung, 12, n. 40, 1810, col. 630-642 e n. 41, 1810, col. 652-659.
6 Ibid., col. 631.
7 Ibid., col. 631-632.
8 Ibid., col. 633.
9 Hoffmann usa il termine Besonnenheit, significativo anche perché svela una possibile fonte del discorso estetico hoffmanniano: esso compare nella Vorschule der Aesthetik (1804) di Jean Paul. Ian Bent, Plato-Beethoven: a hermeneutics for nineteenth-century music?, in Music theory in the age of Romanticism, ed. by Ian Bent, Cambridge, Cambridge University Press,1996, pp. 105-124 ha arricchito il discorso sulle fonti di Hoffmann: considera la recensione del 1810 come un esercizio interpretativo basato sul modello dell'ermeneutica sviluppato da Schleiermacher nella sua traduzione delle opere di Platone, che iniziò a essere pubblicata proprio nel primo decennio dell'Ottocento.
10 Ibid., col. 641 e 658.
11 Un'ampia e approfondita discussione generale della composizione classica è in C. Rosen, The classical style. Haydn, Mozart, Beethoven, New York - London, Norton & Co., 1972, pp. 19-108.
12 Ibid., col. 658.
13 Ibid., col. 631. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari, Laterza, p. 355.
14 Tratto da un manoscritto sulla meteorologia, una delle discipline che più coinvolsero Arnim, il brano è citato da M. Gerten, «Alles im Einzelnen ist gut, alles verbunden ist gross». Ort und Methode der Naturforschung bei Achim von Arnim, in «Fessellos durch die Systeme» Frühromantisches Naturdenken im Umfeld von Arnim, Ritter und Schelling, hrsg. von Walther C. Zimmerli, Klaus Stein, Michael Gerten, Stuttgart-Bad Cannstatt, frommann-holzboog, 1997, pp. 91-142 (p. 123).
15 Sull'inarrestabile ricerca beethoveniana, cfr. William Kindermann, Beethoven, Oxford, Oxford University Press, 1997, p. 11.
16 Il titolo fu comunicato dall'autore in una lettera (28 marzo 1809) agli editori Breitkopf & Härtel: «Pastoralsymphonie oder Erinnerung an das Landleben; mehr Ausdruck der Empfindung als Malerei» (Ludwig van Beethovens sämtliche Briefe, hrsg. von Emerich Kastner, Nachdruck von Julius Kapp, Tutzing, Schneider, 1975, p. 134).
17 Riezler, op. cit., p. 146. Sul romanticismo di An die ferne Geliebte e sul suo recupero in Schumann, cfr. C. Rosen, The romantic generation. Schubert Mendelssohn Meyerbeer Schumann Liszt Bellini Chopin Berlioz, London, HarperCollinsPublishers, 1996, pp. 174 e 101-108.
18 Su Beethoven, Schopenhauer scrisse nel quaderno manoscritto Reisebuch: cfr. Der handschriftliche Nachlaß, Band 3: Berliner Manuskripte (1818-l 830), hrsg. von Arthur Hübscher, München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1985, p. 57. Il passo è riproposto ampliato in Supplementi al «Mondo come volontà e rappresentazione», a cura di Giuseppe De Lorenzo, Bari, Laterza, 1986, p. 467. Il giudizio su Haydn e Beethoven appare in Parerga e Paralipomena, tomo II, Milano, Adelphi, 1983, p. 568. Già nel 1819 Haydn era stato accusato di avere scritto «musica imitativa» nelle Stagioni e in alcuni brani della Creazione: cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione cit., p. 354. Per quanto riguarda le opere di Beethoven: Primavera è la quinta sonata per violino e pianoforte, op. 24 (1801); Chiaro di luna è la quattordicesima sonata per pianoforte, op. 27 n. 2 (1801); La tempesta è la diciassettesima sonata per pianoforte, op. 31 n. 2 (1802).
19 Christoph E. Hänggi, G.L.P. Sievers (1775-1830) und seine Schriften. Eine Geschichte der romantischen Musikästhetik, Bern, Lang, 1993, pp. 1-18 e 146. Oltre a Rochlitz e Sievers, gli «Hoffmanns» privati degli onori sarebbero Christian Friedrich Michaelis, Karl Heinrich Heydenreich, J. K. F. Triest, Calr Friedrich Zelter, Franz Christoph Horn, Carl Gottlieb Horstig. E' curioso constatare che Sievers, dimenticato dai posteri, fu mal giudicato anche da un celebre contemporaneo - sul quale avrebbe dovuto scrivere ma del quale mai scrisse: Beethoven. In un dialogo del 1823 dichiarò che «le cose di Sievers non mi piacciono molto» (Ludwig van Beethovens Konversationshefte, Bd. 1-6, hrsg. von K.H. Köhler und G. Herre, Leipzig, VEB Deutscher Verlag für Musik, 1968-83: Bd. 3, 1983, p. 300).
20 Rochlitz, "Ueber den zweckmässigen Gebrauch der Mittel der Tonkust", Allgemeine musikalische Zeitung, 8, 1805-1806, pp. 3-10, 49-59, 193-201, 241-249; (la citazione è dal n. 13, 25 dicembre 1805, col. 198).
21 Cfr. Hänggi, op. cit., p. 101.
22 [v. T.], "Ueber die Tonkunst", Allgemeine musikalische Zeitung, 1, 1798-1799, col. 721-727, 737-743, 753-760, 769-777 (per le citazioni: col. 740, 741, 743).
23 Rochlitz, "Ueber die Verbindung der Musik mit der Poesie", Allgemeine musikalische Zeitung, 1, 1798-1799, col. 433-450.
24 L'unica eccezione è quella di Wackenroder, con buona pace di coloro che criticano come "mitica" la genealogia dell'estetica musicale romantica da Wackenorder a Hoffmann. Ciò che manca in Wackenroder è l'istanza teoretica: nel suo discorso prevalgono l'emozione e l'«entusiasmo» (il termine fu usato da Schelling, cfr. infra).
25 Allgemeine musikalische Zeitung, 1, N. 38, 1799, col. 607.
26 Allgemeine musikalische Zeitung, 1, N. 23, 1799, col. 366-367.
27 Karl Spazier, "Die berühmtesten Klavierspielerinnen und Klavierspieler Wiens: Mme Auernhammer e Fräulein von Kurzbeck", Allgemeine musikalische Zeitung, 1, N. 33, 1799, col. 523-526 (col. 525).
28 Allgemeine musikalische Zeitung, 1, N. 34, 1799, col. 541-542.
29 Allgemeine musikalische Zeitung, 1, N. 36, 1799, col. 570-571.
30 Lettera a Breitkopf & Härtel del 22 aprile 1801, in Ludwig van Beethovens sämtliche Briefe cit., pp. 39-41. Oltre che dai giudizi negativi, la lettera fu motivata dal silenzio: dopo che, nell'ottobre 1799 e nel febbraio 1800, erano apparsi giudizi meno svilenti, fino al maggio 1802 Beethoven sembrò non interessare più la redazione dell'Allgemeine musikalische Zeitung. Forse è vero che era in disgrazia presso Rochlitz, come lamentò in due lettere del 1806 agli editori della rivista (cfr. Ludwig van Beethovens sämtliche Briefe cit., pp. 92-93).
31 Allgemeine musikalische Zeitung, 5, n. 29, 1803, p. 489. Il concerto presentava le prime due sinfonie (op. 21 e op. 36), il concerto per piano n. 3 op. 37 e l'oratorio Christus am Ölberge (op. 85).
32 Allgemeine musikalische Zeitung, 2, N. 2, 1799, col. 25-27.
33 Allgemeine musikalische Zeitung, 4, N. 35, 1802, col. 569-570.
34 Allgemeine musikalische Zeitung, 7, N. 20, 1805, col. 321-322. Cfr. Thayer, op. cit., pp. 375-376 per un resoconto delle reazioni alla sinfonia, che, per le sue novità e dimensioni, suscitò perplessità presso parte del pubblico e della critica.
35 Beethoven ne era consapevole. Agli editori dell'Allgemeine musikalische Zeitung scrisse che la recensione della Terza non lo danneggiava: semmai comprometteva il buon nome del periodico (Lettera a Breitkopf & Härtel del 5 luglio 1806, in Ludwig van Beethovens sämtliche Briefe cit., p. 92).
36 Allgemeine musikalische Zeitung, 9, N. 25, 1807, p. 400.
37 Citato in Riezler, op. cit., p. 58.
38 Le considerazioni e le esortazioni dei primi recensori di Beethoven, che dichiarano la necessità di esercitare l'orecchio per comprendere un brano musicale, sono una novità nella storia della musica (ringrazio Giovanna Cermelli, che ha attratto la mia attenzione su ciò). Una novità, anch'essa scaturita dalla potenza artistica beethoveniana, che dimostra la fine di un'epoca: quella del primato del committente sull'artista.
39 Sulla causa, vinta, contro Artaria, cfr. Thayer, op. cit., p. 309. La lettera a Wegeler risale al 29 giugno 1801, inLudwig van Beethovens sämtliche Briefe cit., pp. 45-49 (p. 46).
40 Schelling, Sistema dell'idealismo trascendentale, Sezione Sesta, Bari, Laterza, 1990, pp. 301-302.
41 Schelling, Vorlesungen über die Methode des akademischen Studiums, in Schellings Werke, hrsg. von Manfred Schröter, München, Beck, 1927, Dritter Hauptband, pp. 370-371 (tr. it. a cura di Carlo Tatasciore, Napoli, Guida, 1889, pp. 198-200).
42 Cfr Philosophie der Kunst, in Schellings Werke, hrsg. von Manfred Schröter, München, Beck, 1959, Dritter Ergänzungsband, pp. 139-155.
43 Ian Biddle, "F.W.J. Schelling's Philosophie der Kunst: an emergent semiology of music", in Music theory in the age of Romanticism, ed. by Ian Bent, Cambridge, Cambridge University Press,1996, pp. 25-36 vede nella valutazione schellinghiana della musica del suo tempo un conservatorismo che escluderebbe «more "modern" musical types as "middle-period Beethoven» dal novero della «vera» musica.
44 Kinderman, op. cit., pp. 29-46 descrive il beethoveniano "controllo del genio" nelle prime opere per pianoforte e ritiene improprio leggerle in termini di giovanile adesione allo Sturm und Drang.
45 «"Das moralischen Gesez in uns, und der gestirnte Himmel über uns" Kant!», in Ludwig van Beethovens Konversationshefte cit., Bd. 1, 1970, p. 235.
46 Maynard Salomon, Beethovens Tagebuch, hrsg. von S. Brandenburg, Mainz, Hase & Koehler,1990, pp. 95-97. I passi citati da Beethoven (segnalo in corsivo le sue modifiche) sono tratti dall'ottavo capitolo della seconda parte dell'Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels (pp. 334 e 346 nelle Kant's Werke dell'Accademia berlinese, Band I, Berlin, Reimer, 1910):
47 Ludwig van Beethovens Konversationshefte cit., Bd. 1, 1970, pp. 308, 350, 364.
48 Ludwig van Beethovens Konversationshefte cit., Bd. 6, 1974, p. 363. Le «vorzüglichsten Werke» sono: Wilhelm Gottlieb Tennemann, Geschichte der Philosophie, Bd. 1-11, Leipzig, Wendt, 1798-1819; Friedrich Bouterwek, Geschichte der Poesiieund Beredsamkeit seit dem Ende des 13n Jahrhunderts, 12 B.de, Göttingen, 1801-19; A. W. Schlegel, Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur, Heidelberg, 1809-11; Ludwig Heinrich Jakob, Grundriß der allgemeinen Logik und kritischen Anfangsgründe der Metaphysik, Halle, Schwetschke, 1788.
49 C. C. Sturm, Betrachtungen über die Werke Gottes im Reiche der Natur und der Vorsehung auf alle Tage des Jahres. Erster Band welcher die sechs erstern Monate enthält. Zweiter Band welcher sechs letztern Monate enthält, Frankfurt und Leipzig, 1780, Bd.1, pp. 16-19, 33-37, 49-52, 199-202, 371-375, Bd. 2, pp. 652-657, 665-670, 678-680.
50 «Er [Platone] und der Schelling sind die Größten»: Ludwig van Beethovens Konversationshefte cit., Bd. 1, 1970, p. 350.
51 Ludwig van Beethovens Konversationshefte cit., Bd. 1, 1970, p. 349, Bd. 2, p. 24
52 Ludwig van Beethovens Konversationshefte cit., Bd. 1, 1970, p. 76. Il riferimento è a Ignaz Paul Vital Troxler,Ueber das Leben und sein Problem, Göttingen, Vandenhöck u. R., 1806.

Résumé

La notion de «musique absolue» ne trouve pas seulement des philosophes comme Hegel Schopenhauer, et Wackenroder, mais aussi des lettrés qui décrivaient la merveille et la force de la musique composée par Haydn, Mozart and Beethoven. Entre eux se distingue la figure d’E.T.A. Hoffmann, son compte-rendu de la cinquième symphonie de Beethoven étant devenu pierre angulaire dans l’histoire de la critique musicale. Cet article cherche à connaître l’impact de la musique de Beethoven sur la genèse et le processus qui amena à la définition de musique absolue et focalise l’attention sur la relation entre musique et philosophie dans ses écrits, pour offrir une vision plus ample de l’origine de la «musique absolue».

Abstract

At the origin of the notion of “absolute music” there were not only philosophers like Hegel Schopenhauer, and Wackenroder, but several literary writers, too, who described the wonderful and gigantic force of the music composed by Haydn, Mozart and Beethoven. Among them stands out the figure of E.T.A. Hoffmann, whose review of Beethoven’s fifth symphony was a cornerstone of the modern musical criticism. This paper inquires into the evolving impact that Beethoven’s music had on the process leading to the genesis and the definition of “absolute music” and focuses on the relationship between music and philosophy in his writings, thus offering a wider appreciation of the origins of the notion of “absolute music”.

Pour citer cette page

Marco Segala, «Beethoven, Hoffmann e la musica assoluta», Item [En ligne],
Mis en ligne le: 04 août 2010
Disponible sur: http://www.item.ens.fr/index.php?id=577214.

Notice bibliographique

Marco Segala, “Beethoven, Hoffmann e la musica assoluta”, in Musica e filosofia, a cura di Ferdinando Abbri e Elio Matassi, Cosenza, Pellegrini, 2000. (p. 33-68)